Siamo entrati in quarantena, usciamo dal lockdown (con update)

In uno dei post precedenti ho discusso della concorrenza tra quarantena e confinamento per definire le misure alle quali siamo stati sottoposti negli scorsi mesi in italiano e in francese. I dati che avevo raccolto mostravano, per l’italiano, una netta preponderanza di quarantena seguita, già all’epoca da lockdown e, a differenza del francese, un uso assolutamente marginale di confinamento. Alla fine di quel post, poi, osservavo i segnali di un cambiamento di status per lockdown, che cominciava ad essere usato come termine ‘neutro’ anche per riferirsi alle misure di contenimento dell’epidemia applicate in Italia. Uno degli indizi della metamorfosi in corso era per me il fatto che la parola stava piano piano perdendo i segnali di presa di distanza discorsiva che la accompagnavano nelle prime attestazioni (virgolette, corsivo, espressioni come “il cosiddetto”, etc.). Oggi possiamo constatare che il movimento che osservavo un mese e mezzo fa non solo è proseguito, ma ha decisamente accelerato. Per fare un po’ di osservazione linguistica informale, mi sembra abbastanza evidente che, da una parte, la frequenza di lockdown rispetto agli altri termini ha continuato ad aumentare nelle ultime settimane, e dall’altra che il termine ha cominciato ad imporsi anche al di là del linguaggio giornalistico (attraverso cui si è probabilmente diffuso in italiano), e in particolare nella lingua quotidiana. Mi sembra di poter dire, insomma, che, se già non lo ha fatto definitivamente, lockdown, sta diventando il termine consacrato in italiano per designare la chiusura a scopo profilattico della maggior parte delle attività che abbiamo vissuto nei due ultimi mesi. Una prima idea della diffusione accelerata che lockdown ha conosciuto nelle ultime settimane si può avere guardando le attestazioni sulla stampa. Il grafico qui sotto mostra la frequenza di quarantena e di lockdown su Repubblica settimana per settimana dall’inizio di febbraio al 24 maggio. Come si vede, nel momento in cui ho scritto il post in questione (10 aprile) le attestazioni settimanali di lockdown erano ancora appena la metà di quelle di quarantena (126 a 260), ma il ‘sorpasso’ è avvenuto solo due settimane dopo, e da quel momento l’anglismo si è definitivamente affermato come il termine più frequente.

(Micro)storia di lockdown

Prima di osservare più nel dettaglio la diffusione di lockdown in italiano, tuttavia, è interessante soffermarsi brevemente sulla storia, o meglio sulla ‘microstoria’, della parola. Prima del gennaio 2020 lockdown era una parola usata nei paesi anglofoni per fare riferimento, fondamentalmente, all’isolamento di un’area più o meno estesa in caso di pericolo imminente. La relativa pagina Wikipedia cita come esempi le chiusure di scuole e campus universitari in occasione di attentati, ma anche la chiusura di intere città come Boston e Bruxelles o quella dell’intero spazio aereo degli Stati Uniti dopo l’11 settembre. L’uso in riferimento a misure di tipo sanitario, invece, sembra essere emerso proprio in occasione dell’attuale pandemia. La prima attestazione che sono riuscito a trovare in merito è un tweet del 20 gennaio, tre giorni prima della chiusura totale di Wuhan e altre città nell’Hubei. È proprio a partire dal lockdown di Wuhan che il termine si diffonde nella stampa internazionale e tra il pubblico. Mi sembra di poter dire che lockdown è usato senza problemi nel mondo anglofono (alcuni esempi precoci sono qui e qui) fino all’esplosione della pandemia negli Stati Uniti. Quando i primi provvedimenti di chiusura sono presi in alcuni stati americani, si parla piuttosto di shelter-in-place orders e soprattutto di stay-at-home orders, per evitare la confusione con le situazioni di pericolo terroristico a cui la parola lockdown era legata. La lettura dell’articolo di Wikipedia Stay-at-home order è assai istruttiva in proposito. Anche negli Usa, tuttavia, il termine ‘neutro’ che sembra aver preso definitivamente piede per parlare del fenomeno è lockdown (e in misura minore la variante shutdown), tanto è vero che si parla quasi esclusivamente di anti-lockdown protests per le manifestazioni che hanno avuto luogo in diverse città americane (si vedano, ad esempio, le immagini presenti qui e qui). Per quanto riguarda l’italiano, i media cominciano ad usare lockdown agli inizi di marzo, e ad applicarlo alla situazione italiana a partire dalla chiusura totale del paese l’11 (la curva di lockdown nel grafico qui sopra comincia a muoversi infatti in corrispondenza della prima settimana di marzo). Una lettura molto istruttiva sull’uso di lockdown in italiano è il post dedicato all’argomento dal blog Terminologia etc., sia per il contenuto in sé che come, per così dire, ‘documentazione storica’. Il post è del 20 marzo, e l’uso della parola in questione viene attribuito principalmente ai media, mentre è assente, si dice, nella comunicazione istituzionale e “praticamente assente dalle conversazioni di vita reale”. In un aggiornamento successivo, tuttavia, l’autrice del blog, Licia Corbolante, fa notare che il termine è apparso nel DPCM del 10 aprile, entrando così di fatto nel lessico istituzionale. Un’altra fonte utile per una microstoria della parola in italiano è Wikipedia. Il 26 marzo viene creata sulla versione italiana una pagina intitolata Lockdown. La relativa pagina di discussione è un altro documento interessantissimo sull’incertezza terminologica che ha caratterizzato gli ultimi mesi. I partecipanti alla discussione, perlopiù ostili a lockdown in quanto anglismo, neologismo o “recentismo”, propongono diverse alternative per il titolo della pagina, chiusura totale, quarantena, confinamento, blocco totale, misure di contenimento, distanziamento sociale, per poi accordarsi su misure di confinamento, e la pagina viene rinominata di conseguenza il 4 maggio. Misure di confinamento è il termine ‘ufficiale’ proposto dalla IATE, il database terminologico dell’Unione Europea, e in quanto tale viene considerato preferibile a lockdown, di cui si riconosce la diffusione nettamente maggiore, ma che viene percepito come eminentemente giornalistico.

Prima si fa il lockdown, poi si decide come chiamarlo

Per riassumere ed inquadrare bene i termini della questione, tra fine gennaio e fine marzo la maggior parte degli abitanti del pianeta sono confrontati a un fenomeno nuovo: la chiusura a tempo indeterminato della maggior parte delle attività non indispensabili alla sopravvivenza immediata come misura di prevenzione sanitaria. Visto che si tratta di un fenomeno imprevisto che non si era mai verificato prima, in nessuna lingua esiste un termine ufficiale e consolidato per definirlo. L’oscillazione terminologica che ho rapidamente evocato per l’inglese e soprattutto per l’italiano nelle prime settimane è quindi del tutto naturale. Una cosa che è interessante osservare, quando si studia una lingua, è proprio lo sviluppo del processo di stabilizzazione del lessico che si verifica in questi casi. Per vari motivi, la sinonimia perfetta non è una cosa che le lingue amino particolarmente. Anche se i parlanti possono tollerare il fatto che esistano diverse parole per designare lo stesso fenomeno, preferiscono pensare che esista un solo termine ‘ufficiale’, e che le altre siano al più varianti marcate (ad esempio perché appartengono al registro burocratico, giornalistico, colloquiale, etc.). La ricerca faticosa del termine ‘giusto’, da utilizzare come titolo dell’articolo relativo, da parte dei contributori di Wikipedia mi sembra, da questo punto di vista, emblematica. Fare previsioni in materia di lingua è sempre difficile, tanti sono i fattori imprevisti che possono contribuire a complicare la situazione. Quello che voglio tuttavia suggerire è che è possibile che lockdown, dopo aver svolto per un po’ di tempo un ruolo subalterno rispetto a quarantena, stia diventando ‘il’ termine neutro per definire il concetto ‘chiusura totale delle attività non indispensabili a scopo sanitario’ in italiano.

Lockdown sulla stampa

Come prima cosa, per verificare l’ipotesi qui sopra, possiamo osservare i dati giornalistici in maniera un po’ più dettagliata. I tre grafici qui sotto mostrano la frequenza di quarantena e lockdown su la Repubblica (sono fondamentalmente gli stessi dati del primo grafico), sul Corriere della sera e sul Sole 24 ore dalla prima settimana di febbraio al 24 maggio (una settimana prima nel caso del Corriere, che consente le ricerche solo negli ultimi sette giorni).

I tre grafici permettono di osservare, da un lato, che da marzo il numero di volte in cui l’argomento ‘chiusura totale’ è stato trattato nella stampa è in aumento quasi costante, e dall’altro, che lockdown sta lentamente prendendo il posto di quarantena. Come ho già osservato in altri post, non mi interessa tanto cercare le cause dei fenomeni linguistici, che spesso sono molteplici e difficili da identificare, quanto piuttosto osservare i fenomeni stessi. Invocare semplicemente l’anglofilia dei media italiani, e degli italiani in generale, ha probabilmente un fondo di verità, ma è una spiegazione fin troppo facile. All’inizio, quando diverse opzioni erano possibili, per ognuna delle parole in lizza vi erano fattori che la avvantaggiavano o la svantaggiavano. Provando a fare delle ipotesi: lockdown è un anglismo (che può essere un vantaggio o uno svantaggio a seconda dell’ideologia linguistica alla quale si aderisce), è concisa, e soprattutto ha il grande vantaggio di non essere ambigua, dal momento che la sua diffusione, prima della pandemia, era assolutamente trascurabile; quarantena è una parola ben installata nel lessico dell’italiano, ma ha lo svantaggio di essere ambigua, e già usata in italiano per designare un altro tipo di isolamento, più limitato nello spazio e nel tempo. Ad un certo punto, però, il lessico comincia a stabilizzarsi, e superata una certa soglia critica l’associazione tra una parola e un concetto è così frequente ed automatica che le altre considerazioni cessano di essere pertinenti (a meno di non voler fare coscientemente una scelta lessicale deviante). Non dico che lockdown abbia già superato la soglia critica in questione, ma è un’evoluzione più che verosimile per il prossimo futuro.

Lockdown su Twitter (e nella lingua comune)

A questo proposito, ci si può domandare se la prevalenza di lockdown sia semplicemente un fenomeno giornalistico, o se si stia facendo strada anche nella comunicazione quotidiana, cosa che corrisponderebbe alla mia esperienza di parlante (che tuttavia abita all’estero). Ancora una volta, uno dei modi più semplici per stabilirlo è ricorrere a Twitter. In questo caso, mi sono servito dei dati di 40twita, un corpus che raccoglie tweet relativi alla pandemia realizzato da Valerio Basile e Tommaso Caselli all’Università di Torino e che mi è stato gentilmente messo a disposizione dagli autori. La curva a sinistra si riferisce alla frequenza di quarantena nello stesso intervallo temporale dei dati giornalistici qui sopra, mentre quella a destra (in particolare quella blu, di quella arancio parlerò qui sotto) mostra l’andamento di lockdown. A differenza delle precedenti, queste curve non corrispondono ai numeri assoluti, ma alla proporzione rispetto al numero totale di tweet, che è piuttosto variabile secondo i periodi.

Quarantena mostra un picco la penultima settimana di febbraio (quella della scoperta dei primi casi autoctoni in Italia), e un ulteriore incremento a inizio marzo (quando è stata decisa la chiusura nazionale), per poi stabilizzarsi e decrescere leggermente a partire da maggio. Lockdown, invece, mostra un incremento costante fino a fine aprile, seguito da una stabilizzazione. È quindi assai probabile che l’uso su Twitter (verosimilmente più vicino alla lingua di tutti i giorni) sia simile a quello osservato sui giornali. In questo caso ho presentato i dati in due grafici separati, perché un confronto diretto tra la frequenza delle due parole non è significativo: quarantena fa parte delle parole target che sono state utilizzate per l’identificazione e l’estrazione dei tweet pertinenti ed ha quindi una frequenza assoluta nettamente maggiore. Non è impossibile, tuttavia, che lockdown stia superando la parola concorrente anche su Twitter. Il grafico qui sotto mostra la frequenza degli hashtag #quarantena e #lockdown negli ultimi cinque giorni (ovviamente limitatamente ai tweet in italiano).

Contare i soli hashtag è certamente parziale (ma più rapido); i numeri qui sopra sono però piuttosto in linea con quelli giornalistici (un rapporto di circa 2:1 tra la frequenza di lockdown e quella di quarantena). È perciò piuttosto verosimile pensare che la tendenza generale sia la stessa anche su Twitter (che possiamo considerare più vicino alla lingua quotidiana). Interessiamoci ora alla curva arancio nel grafico relativo alla frequenza di lockdown su Twitter qui sopra, che fornisce forse una delle chiavi per capire l’ascesa della parola in italiano. Mentre la curva blu si riferisce alle occorrenze del termine come parola singola, questa si riferisce al totale delle occorrenze della sequenza ‘lockdown’, quindi anche in contesti più larghi come hashtag, parole composte, etc. Come si vede, le due curve corrono abbastanza parallele tranne in due momenti, nella settimana dal 9 al 15 marzo e nelle settimane a cavallo tra la fine di aprile e l’inizio di maggio. Guardando più nel dettaglio, si può determinare più precisamente che cosa è responsabile di questo scarto, e perché. I due periodi in questione corrispondono, infatti, ai limiti cronologici della chiusura completa del paese. Per il primo periodo, l’hashtag #italylockdown è responsabile di più di metà delle occorrenze totali, di cui 1062 (il 39%) solo il 10 marzo, il primo giorno di chiusura per l’intero territorio. Per il secondo, è invece l’hashtag #lockdownitalia ad essere preponderante, con un picco di 461 occorrenze il 27 aprile (il 26 è il giorno della conferenza stampa in cui Conte ha annunciato la fine parziale del lockdown). I motivi del passaggio dalla versione ingleseggiante a quella più italiana non mi sono chiari. Un’ipotesi può essere una crescita progressiva della familiarità con il virus e con tutto quello che gli gira intorno. Con più sicurezza, si può ricordare che l’Italia è stato il primo paese dopo la Cina ad adottare misure drastiche di chiusura, e #italylockdown è chiaramente calcato su #wuhanlockdown, l’hashtag nato e diffusosi nei giorni della chiusura della città cinese primo focolaio della pandemia. Ovviamente, non voglio suggerire che da soli gli hashtag in questione sono responsabili della diffusione di lockdown e del sorpasso ai danni di quarantena e degli altri termini possibili. Ma allo stesso modo che la presunta anglofilia cronica di cui amiamo autoaccusarci non può esserlo. Come ho già ripetuto in altri post, la lingua che osserviamo è sempre il risultato dell’azione congiunta di diversi fattori, spesso difficili da distinguere e identificare.

[Update: uno dei punti che ho sviluppato in questo post è il fatto che il fenomeno (o il concetto) che ho etichettato come ‘chiusura a tempo indeterminato della maggior parte delle attività non indispensabili alla sopravvivenza immediata come misura di prevenzione sanitaria’ non possedeva, nel momento in cui si è manifestato, una denominazione stabile e univoca. Di conseguenza, si è osservata, da principio, una certa variabilità presso i parlanti (di vari tipi, parlanti comuni, mass-media, istituzioni, etc.), che ora sembrano aver trovato un certo consenso nell’uso di lockdown come termine stabile. Pochi giorni dopo aver pubblicato il mio, un post pubblicato su Giap, il blog dei Wu Ming, mi ha fatto riflettere sul fatto che, in realtà, neanche il concetto in questione è stabile. Cito il brano in questione:

“«Il lockdown» non vuol dire niente. Non esistono paesi che hanno fatto «il lockdown» e altri che non l’hanno fatto. Tutti i paesi hanno chiuso qualcosa, hanno fatto dei lockdown, compresa la vituperata Svezia. La questione è sempre stata: lockdown di cosa, come, quando e per quanto tempo. Non è mai esistito un unico “pacchetto”, un unico modello, un unico insieme di divieti e restrizioni. Le strategie sono state variegate e modulate – bene, benino, male o malissimo – nello spazio e nel tempo.”

Il fatto che anche il concetto da definire non sia univoco, ma sia, al contrario, anch’esso variabile e sfuggente, non è in sé sorprendente (in altri post ho già parlato dell’indeterminatezza strutturale delle espressioni linguistiche), e non è nemmeno incompatibile con il fatto che i parlanti cerchino una denominazione stabile, anche proprio per dare sistematicità ad un insieme di fenomeni non completamente uniforme].

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