Le varianti e il politically correct (con update)

Il periodo a cavallo tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 è stato caratterizzato dall’apparizione (o meglio dall’identificazione) della variante del coronavirus che tecnicamente è stata chiamata VOC 202012/01 (o anche B 1.1.7), quella che nel discorso pubblico è attualmente quasi unanimemente chiamata la “variante inglese”. È proprio sui termini usati per designare questa variante che voglio concentrarmi in questo post. A quanto ho potuto ricostruire, le prime notizie sulla famigerata variante sono comparse in Gran Bretagna il 14 dicembre, anche se pare che la sua comparsa debba essere retrodatata di qualche mese. Quasi contemporaneamente, arrivano in Italia le prime notizie della cosa, ma è solo dopo qualche giorno, quando se ne accorge la stampa nazionale che l’informazione diventa virale. A partire dal 19 dicembre almeno tre quotidiani dedicano un articolo a quella che chiamano già la “variante inglese”, e da quel momento tutti ne parlano. A titolo di esempio, il grafico qui sotto mostra la frequenza dell’espressione variante inglese su Twitter dal 14 al 31 dicembre. Come si vede, il ‘picco’ delle attestazioni è il 21, per poi scendere abbastanza rapidamente subito dopo Natale.

Il modo in cui i termini per riferirsi alla variante in questione sono entrati e si sono diffusi in italiano (e in altre lingue) fornisce alcuni spunti di riflessione interessanti, in particolare riguardo alle dinamiche che determinano come diamo un nome, in quanto comunità, ai fenomeni che ci circondano, e alla tensione tra le dinamiche in questione e quella che possiamo definire l’illusione della programmazione linguistica.

Le origini della variante inglese

Cerchiamo, innanzitutto, di inquadrare la questione. Come indicato all’inizio, la variante in questione (che per comodità chiamerò VI) ha ricevuto una denominazione tecnica nel momento in cui è stata identificata, VUI (“variant under investigation”), poi modificato in VOC (“variant of concern”) 202012/01. Si tratta chiaramente di un’etichetta molto poco pratica da utilizzare al di fuori di un contesto tecnico; nel momento in cui la notizia dell’esistenza della VI è uscita dai laboratori, si è quindi posta la questione di ‘darle un nome’ che fosse chiaro e facilmente identificabile. Come già osservato, sulla stampa italiana non se ne parla prima del 19 gennaio. Possiamo però osservare le attestazioni, ancora sporadiche, che si trovano su Twitter. In particolare, ho cercato le attestazioni del termine variante accompagnato dai modificatori inglese, del (corona)virus e del Covid(-19) dal 14 al 31 dicembre. Se includiamo l’insieme di questi dati nel grafico precedente, è evidente come dal 19 variante inglese (la linea blu) prenda nettamente il sopravvento sulle altre possibili combinazioni (condensate nella linea arancio).

Le poche attestazioni registrate nei sei giorni precedenti, invece, sebbene probabilmente poco significative dal punto di vista statistico, mostrano una leggera prevalenza delle espressioni, apparentemente più oggettive, variante del (corona)virus / del Covid(-19) (21 contro 13 di variante inglese), il che sembra suggerire che i media tradizionali svolgono ancora un ruolo non solo nell’imporre gli argomenti di cui parlare, ma anche il lessico adatto a parlarne. Prima di interessarci specificamente al lessico veicolato dai media tradizionali (nella fattispecie i giornali), osserviamo en passant un altro aspetto che emerge dai dati in questione. Se scorporiamo le occorrenze di variante del (corona)virus e variante del Covid(-19) e le confrontiamo, osserviamo che le seconde sono sistematicamente più frequenti delle prime, fino a cinque volte tanto il 21 dicembre. Tecnicamente, sarebbe la prima espressione ad essere corretta, le varianti riguardano ovviamente la costituzione del virus e non la malattia che esso provoca. In questo caso, tuttavia, assistiamo ancora una volta ad una manifestazione dell’indeterminatezza semantica delle parole delle lingue naturali di cui si è parlato in alcuni dei post precedenti, e più nello specifico ad una sovrapposizione di significato (che certamente dall’epoca in cui ho scritto questo post è andata aumentando) tra la malattia Covid-19 e il coronavirus che la provoca. Delle due è certamente Covid ad essere quella più frequente, saliente e di conseguenza immediatamente disponibile nel nostro lessico per attivare il frame ‘pandemia’.

La variante inglese nella stampa

Osserviamo ora più da vicino il trattamento che la VI ha ricevuto sulla stampa. Anche in questo caso, si osserva una coabitazione delle diverse forme nei primi giorni, finché la forma variante inglese non si impone definitivamente. Se prendiamo Repubblica, ad esempio (che come ho già detto è il quotidiano che presenta l’interfaccia di ricerca più completa e di facile utilizzo), nel periodo che va dal 20 (data della prima attestazione sul quotidiano cartaceo) al 31 dicembre si trovano 62 attestazioni di variante inglese e 27 di variante del Covid(-19)/del (corona)virus, distribuite come mostra il grafico qui sotto.

Nel mese di gennaio, invece, variante inglese compare 55 volte, mentre variante del Covid(-19) o del (corona)virus compare soltanto 4 volte.

Ancora più interessante, però, è l’osservazione qualitativa di come, nel periodo iniziale di incertezza terminologica, prima che variante inglese si affermasse come il termine (almeno giornalisticamente) consacrato, i giornali italiani si siano sbizzarriti nel nominare la VI. Ne mostro un piccolo florilegio qui sotto.

Ho guardato tutte le prime pagine dei quotidiani (il Post propone ogni giorno sul suo sito una comoda rassegna stampa) tra il 21 e il 24 dicembre. Mi sono fermato a questa data, perché dopo Natale, la VI è già uscita dalle prime pagine. I termini usati, insieme al numero di occorrenze, sono quelli indicati qui sotto. L’ordine in cui sono proposti cerca di proporre una scala di oggettività, dai più ‘neutri’ a quelli evidentemente scelti (o inventati) per esigenze giornalistiche:

variante
variante (del) Covid
variante del virus
mutazione
virus mutato
variante inglese
mutazione inglese
virus (all’)inglese
virus british
virus più cattivo
Covid mutato
nuovo Covid
Covid 2
Super-Covid
Covid inglese
6
4
3
3
5
26
1
7
1
1
1
5
2
1
1

Al di là della prevedibile prevalenza di variante inglese, è interessante osservare la varietà di termini utilizzati dai giornali nel momento in cui la denominazione della VI non si era ancora stabilizzata. È fin troppo evidente che in molti casi il desiderio di trovare una denominazione accattivante, spiritosa, se non volutamente funzionale alla spettacolarizzazione della pandemia, prevale sull’accuratezza nella ricerca di un termine adeguato. Particolarmente significative, mi sembra, sono le espressioni che coinvolgono il termine Covid anziché il più accurato virus: da una parte manifestano chiaramente la sovrapposizione tra la denominazione del virus e quella della malattia di cui ho già parlato. Dall’altra, senza voler esprimere giudizi (ognuno può facilmente valutare la qualità giornalistica dei titoli in questione), attraverso l’uso della parola chiave Covid, altamente presente nella coscienza linguistica, è palese il desiderio di mantenere viva l’attenzione presentando l’apparizione della VI come un momento di svolta nella narrazione della pandemia.

Le varianti, il politically correct e la programmazione linguistica

Veniamo ora a quello che per me è l’elemento più interessante della questione, la caratterizzazione geografica della VI, e di quelle che sono seguite. Innanzitutto, è bene ricordare che l’attribuzione ad una malattia di una denominazione geografica, ma anche il nome di una persona, di una comunità, e in generale di qualsiasi espressione che possa essere percepita come stigmatizzante è sconsigliata dall’Oms fin dal 2015. È in questa prospettiva che, come già ricordato in questo blog, l’11 febbraio di un anno fa la stessa organizzazione ha introdotto il nome Covid per la malattia che fino a quel momento veniva designata regolarmente nelle diverse lingue come “virus cinese” o “virus di Wuhan”. Quello che possiamo osservare è che il cambio di rotta voluto dall’Oms ha sostanzialmente funzionato. Scorrendo, ad esempio, i giornali italiani della fine di febbraio del 2020, è facile osservare che coronavirus e virus, senza specificazioni, sono i termini prevalenti per riferirsi alla malattia e alla pandemia in generale, prima che Covid prenda definitivamente il sopravvento. Ovviamente, è difficile ipotizzare che le raccomandazioni dell’Oms siano state sufficienti da sole a determinare l’espansione immediata di un termine in centinaia di lingue, cosa che non è successa per altre malattie contagiose in passato. Né si può ipotizzare che abbia giocato un desiderio globale di precisione terminologica, altrimenti la cosa avrebbe funzionato quasi un anno dopo anche per la variante inglese e le altre. Un fattore che ha sicuramente influito è che Covid è un’invenzione piuttosto felice: è breve, facile da ricordare, adattabile a diverse lingue e legata a coronavirus in maniera abbastanza trasparente. In secondo luogo, è difficile provarlo con certezza, ma è assai probabile che la Cina abbia usato della sua influenza all’interno dell’organizzazione e più in generale del suo soft power per cercare di togliere dalla circolazione le denominazioni percepite come scomode (se ne parla un po’ qui). Infine, le raccomandazioni dell’Oms sono intervenute in un contesto culturale globale di attenzione estrema alla political correctness e a quella che possiamo definire la ‘neutralità espressiva’. È ben noto, infatti, che nei mesi successivi l’espressione virus cinese ha acquisito una precisa connotazione politica, diventando l’appannaggio dei movimenti Covid-scettici, nonché una delle espressioni preferite di Trump quando era ancora presidente.

Le specificazioni geografiche attribuite alle varianti emerse tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, invece, hanno suscitato, come abbiamo visto, molte meno perplessità. La loro accettazione, tra l’altro, è stata equanime e praticamente simultanea in tutte le lingue. L’osservazione della pagina Variant of Concern 202012/01 sulla Wikipedia inglese è interessante a riguardo. Sulla pagina di discussione corrispondente si trovano le tracce di un dibattito sull’opportunità di includere le forme UK variant e British variant, che vengono effettivamente riportate come denominazioni alternative in un’apposita sezione. Una ricerca dei termini pertinenti su The Coronavirus Corpus, un corpus di giornali online di lingua inglese, effettuata l’8 febbraio (il corpus viene aggiornato quotidianamente), fornisce 2.083 occorrenze di UK variant e 388 di British variant, che insieme corrispondono al 41,3% del totale dei termini usati per designare le varianti in questione, una proporzione non trascurabile, se è vero, come indica in maniera del tutto credibile Wikipedia, che queste espressioni sono principalmente usate al di fuori della Gran Bretagna.

È difficile stabilire con certezza a cosa sia dovuto il diverso trattamento riservato alla variante inglese (e alle altre) rispetto al virus cinese, ma possiamo azzardare qualche ipotesi. La prima ci è suggerita dall’uso che si osserva sulla stampa, compresa quella che possiamo genericamente definire ‘progressista’. Il giornale online americano Vox, ad esempio, ha dedicato in marzo un articolo all’uso di Chinese virus da parte di Trump, definendolo “razzista” e “pericoloso”, ma in un altro articolo apparso in dicembre dice di aver utilizzato UK (coronavirus) variant “per semplicità”. Per restare in Italia, l’uso di virus inglese sulla prima pagina di Repubblica il 21 dicembre è stato considerato da molti uno scivolone e parecchio criticato sui social network. In questi casi, è probabile che sul rigetto collettivo di virus cinese e varianti abbiano pesato soprattutto considerazioni extralinguistiche, e in particolare il fatto che, in un contesto comunicativo fortemente polarizzato, l’espressione sia stata fatta propria dal ‘campo’ populista e tendenzialmente negazionista. In assenza di questa patina ideologica, tuttavia, l’uso di un’etichetta geografico-etnica per caratterizzare una malattia è potuto riemergere nell’uso spontaneo dei parlanti e dei giornalisti (che sono parlanti a loro volta). Designare oggetti e fenomeni sulla base della provenienza (vera o presunta) è una tendenza talmente ancorata nelle lingue, almeno quelle occidentali, che possiamo attribuirle quasi lo status di ‘metafora fondamentale’. È una tendenza che ovviamente si scontra con le già ricordate esigenze di scientificità e neutralità; senza contare che alcune di queste denominazioni nel passato riflettevano effettivamente pregiudizi e stereotipi negativi (il caso emblematico è quello della sifilide). A loro volta, tuttavia, scientificità e neutralità possono costituire un ostacolo all’immediatezza e alla trasparenza della comunicazione. Le denominazioni scientifiche attribuite alla VI menzionate sopra sono un esempio evidente di questo fatto. Come già rilevato in altri casi, ci troviamo qui di fronte ad una tensione tra due spinte parzialmente in conflitto: evitare qualsiasi uso linguistico potenzialmente stigmatizzante o privilegiare le esigenze della trasparenza comunicativa (‘parlare per capirsi’, insomma, esattamente quello che hanno fatto e rivendicato quelli di Vox). Il fatto che prevalgano le une o le altre dipende da diversi fattori, non necessariamente linguistici, come la maggiore o minore attenzione ad essere coerenti con le proprie posizioni ideologiche (senza necessariamente dare alla parola un significato negativo).

Un’altra spiegazione, non necessariamente in contraddizione con la prima, è che, una volta raggiunta la soglia critica di frequenza che gli ha permesso di imporsi come termine consacrato per designare la VI, variante inglese ha fatto sì che il modello variante + aggettivo etnico diventasse il modello ‘standard’ per designare qualsiasi nuova variante del virus identificata. Oltre alla variante inglese, sudafricana, brasiliana e in misura minore californiana, che sono quelle di cui si parla maggiormente sui giornali, qualche ricerca su Google mi ha permesso di scoprire che, nelle scorse settimane, sono state identificate anche le vere o presunte varianti veneta, francese, spagnola, tedesca, giapponese, e probabilmente qualche altra. Ovviamente, una volta che il modello in questione è diventato quello predominante nella lingua comune e sui media per designare le varianti del Sars-CoV-2, è prevedibile che la relazione semantica tra variante e l’aggettivo che la modifica cominci ad attenuarsi. In fondo, nel sentire comune, la zuppa inglese e la tenda canadese hanno ben poco a che fare oggi con i paesi che i loro nomi evocano. Nel caso del coronavirus è probabilmente troppo presto per osservare chiaramente questo fenomeno. Ho però trovato un possibile indizio in questo articolo del settimanale francese Marianne (le forme variant anglais, sud-africain, etc. sono quelle preponderanti anche in francese), in cui di fronte alla necessità di nominare una presunta variante della variante inglese contenente una mutazione propria alla variante sudafricana identificata nel Regno Unito viene utilizzato l’aggettivo britannica, con ogni probabilità a causa dell’indisponibilità di inglese.

[Update: dopo aver pubblicato questo post, ho scoperto due articoli, uno di Nature e uno uscito ieri sul Guardian, in cui si descrivono i problemi legati alla denominazione delle nuove varianti. Vi si scopre, cosa che ignoravo, che non c’è un consenso sulla nomenclatura neanche tra gli scienziati, e che in ogni caso questi ultimi sono ben coscienti della necessità di avere nomi più semplici da usare nella comunicazione quotidiana. L’articolo del Guardian, in particolare, riporta che agli studiosi capita di riferirsi alle diverse varianti nelle conversazioni private con nomi presi dalla lingua comune, come nomi di uccelli (‘Pellicano’, ‘Quaglia’, ‘Tordo’), o nomi propri di persona (Doug o Nelly). Si tratta di nomi ancora meno trasparenti di variante inglese e simili, ma, in primo luogo, il riferimento geografico è certamente meno pertinente nell’ambito di un gruppo ristretto di ricercatori, e secondariamente l’elemento importante qui è avere un’etichetta per distinguere una variante dall’altra. L’articolo del Guardian, ad esempio, suggerisce che alla fine potrebbe imporsi un sistema di denominazione simile a quello usato per gli uragani e altri fenomeni meteorologici, che utilizza nomi propri. La lettura di questi articoli, tra l’altro, suggerisce anche un’altra considerazione a proposito dell’interazione stretta che esiste tra la concettualizzazione della realtà e il lessico che serve per descriverla. Prima è emersa la necessità di riferirsi ai singoli virus individualmente (HIV, H5N1, SARS-CoV-2…), ora, a causa della penetrazione nel grande pubblico di ogni minimo dettaglio che riguarda la pandemia di Covid, è necessario scendere un ulteriore gradino, e poter fare riferimento alle singole varianti dello stesso virus. È effettivamente verosimile che le etichette che fanno riferimento alla geografia si riveleranno presto inadeguate, soprattutto se diverse varianti sono scoperte nello stesso paese e l’aggettivo etnico cessa di essere informativo. In questo caso sarà interessante osservare se un sistema di nomenclatura alternativo emergerà, e quale sarà.]

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