I nomi del virus

La prima osservazione linguistica, e la più semplice, che possiamo fare in merito alla pandemia che stiamo attraversando riguarda la denominazione del virus e delle sue conseguenze. Virus, coronavirus, Covid, e qualche altra, sono parole diventate ormai da diverse settimane parte del nostro discorso quotidiano. Personalmente, mi rendo conto che, da quando la quarantena è cominciata, il coronavirus e le sue conseguenze dirette o indirette appaiono nella stragrande maggioranza dei discorsi che faccio, con quelli che sono praticamente gli unici interlocutori ‘fisici’ che ho (la mia famiglia) e con tutti i miei interlocutori virtuali. E non faccio fatica ad immaginare che sia così per tutti gli altri o quasi. A parte casi eccezionali, tutti (e in questo periodo quando diciamo “tutti” parliamo della metà degli abitanti del globo) abbiamo subito una rottura tanto radicale quanto repentina della nostra quotidianità a causa del virus, e abbiamo costantemente il virus come sfondo di qualsiasi nostra attività (o, trattandosi del confinamento, inattività).

virus, coronavirus e Covid nella stampa

Non posso, ovviamente, calcolare la frequenza con cui io e le persone con cui parlo (dal vivo o per via telematica) utilizziamo parole come coronavirus o Covid, né la velocità alla quale queste parole si sono, giorno per giorno, introdotte nei nostri discorsi fino a ritagliarsi – di questo sono abbastanza sicuro – una fetta importante nell’insieme dei discorsi che teniamo e delle parole che pronunciamo. Posso però cercare di avere un’idea approssimativa della proporzione che queste parole hanno preso e stanno prendendo nella nostra vita. Il modo più pratico e immediato per farlo è guardare l’uso di queste, e di altre parole, sulla stampa. Da qualche settimana registro l’evoluzione della frequenza di un certo numero di parole che hanno a che fare con la pandemia su Repubblica, che possiede l’interfaccia di ricerca più comoda e completa tra i quotidiani nazionali. Il grafico qui sotto si riferisce alla frequenza di virus, coronavirus e Covid su base quotidiana nella versione cartacea dall’inizio dell’anno fino al 5 aprile.

Già a partire da questo grafico è possibile fare qualche osservazione. Innanzitutto, le curve mostrano, com’è prevedibile, variazioni significative in alcuni momenti ‘chiave’ (che ho indicato con una riga verticale). Il primo corrisponde al primo articolo che su Repubblica menziona il virus, il 13 gennaio (ma sulla versione online se ne era già parlato più di una settimana prima). Come si vede, in questo periodo si parla ancora esclusivamente (o quasi) di virus. Il secondo momento chiave si colloca il 20 gennaio, giorno in cui il giornale dedica tre articoli alla questione e che corrisponde alla data in cui l’Oms riconosce ufficialmente che la trasmissione da uomo a uomo del virus è possibile. In questa fase virus e coronavirus sostanzialmente coesistono e si equivalgono. È a partire dal terzo momento chiave, il 30 gennaio, che osserviamo, da una parte, una crescita globale nell’uso delle parole in questione (e quindi, possiamo immaginare, degli articoli che trattano dell’argomento) e dall’altra una netta preferenza per coronavirus rispetto al più generico virus. Gli ultimi dieci giorni di gennaio, ricordiamolo, sono quelli in cui diversi casi di contagio sono identificati nei paesi occidentali, e in particolare, appunto il 30, in Italia. Il quarto momento chiave corrisponde, ovviamente, all’identificazione dei primi casi ‘autoctoni’, a Codogno e Vo’. È il momento in cui comincia la vera esplosione dell’argomento sulla stampa nazionale. Il secondo grafico qui sotto mostra la proporzione della frequenza delle tre parole rispetto al totale del quotidiano (in questo caso su base settimanale) e dà un’idea piuttosto chiara di questa esplosione. A partire dall’ultima settimana di febbraio, virus, coronavirus e Covid da sole hanno costituito tra il 20 e il 40% di tutte le parole utilizzate su Repubblica.

Il nome del virus e della malattia

Di Covid non ho ancora parlato. Come si sa, Covid-19 è il nome ufficiale che l’Oms ha attribuito alla malattia causata dal coronavirus. Lo ha comunicato l’11 febbraio, e infatti, nel primo grafico qui sopra, la curva corrispondente comincia a ‘muoversi’ il 12. La crescita di Covid è più progressiva, con un primo picco verso fine marzo, fino a superare sostanzialmente virus nell’ultima settimana. Una prima osservazione che possiamo trarre da queste curve è quella di un progressivo movimento verso un’‘individualizzazione’ della malattia, visto che Covid è più precisa di coronavirus (anche se tecnicamente non designano esattamente la stessa cosa), che a sua volta è più precisa di virus.

A questo punto, vale la pena osservare più in dettaglio l’evoluzione delle denominazioni date al virus e ai suoi effetti. Per ripetere cose conosciute, il virus all’origine della pandemia è un particolare tipo di coronavirus chiamato SARS-CoV-2 che provoca una malattia chiamata Covid-19. Benché queste distinzioni siano chiare ai più, l’uso comune che se ne fa è molto meno rigido e preciso. Per un linguista, non è un fenomeno sorprendente: mentre la lingua medica, come ogni lingua settoriale, ha bisogno di termini univoci, la lingua comune accetta, e anzi si nutre, di una certa dose di indeterminatezza. Se, cioè, un medico o un biologo hanno bisogno di identificare con precisione una patologia, e di distinguerla dall’organismo che la provoca, per noi comuni mortali ‘l’importante è capirsi’. E se lo scopo è capirsi, le frasi “X è malato di coronavirus” o “X è malato di Covid-19” sono senza dubbio equivalenti. Giusto per fare un esempio, dal 1° marzo ad oggi, l’espressione “malato/i di coronavirus” compare 67 volte sulla Repubblica, mentre l’espressione – in teoria più precisa – “malato/i di Covid” compare soltanto 30 volte. In sé coronavirus è anch’essa una parola ambigua (stando a Wikipedia esistono circa 40 specie diverse di coronavirus), ma nel contesto attuale lo specifico coronavirus che è alla base della malattia Covid-19 è talmente saliente rispetto a qualsiasi altro da scongiurare ogni ambiguità possibile. È lo stesso fenomeno di antonomasia per cui, nel contesto appropriato, espressioni come l’Avvocato o la Cancelliera sono immediatamente comprensibili. Possiamo quindi considerare plausibile che, in molti casi, coronavirus e Covid(-19) siano, nella lingua comune, sinonimi, anche per via della difficoltà a distinguere, per noi che non siamo microbiologi, una malattia dalla sua causa invisibile. Lo stesso, poi, vale anche per altre denominazioni (prima su tutte il virus). E, come stiamo constatando, queste denominazioni, la loro frequenza, e il loro livello, per così dire, di ‘sinonimicità’ variano nel tempo. Solitamente i linguisti fanno ricerche diacroniche su tempi lunghi, che si misurano in secoli; ma l’impennata comunicativa legata al virus, che ricalca quella dei contagi, e che è ben visibile nel grafico qui sopra, ci permette di fare almeno una piccola indagine micro-diacronica sugli ultimi tre mesi.

Il nome del virus: micro-storia

Come ho detto sopra, sulla versione cartacea di Repubblica si parla per la prima volta del virus il 13 gennaio. Nell’articolo si parla di “misterioso virus” e di “polmonite”. Polmonite è anche il termine più usato a livello internazionale all’epoca: la pagina di Wikipedia relativa alla pandemia cambia nome da China pneumonia outbreak a Novel coronavirus outbreak il 20 gennaio, e anche in cinese si parla inizialmente di wǔhàn fèiyán (‘polmonite di Wuhan’).

Il grafico qui sotto mette a confronto, sempre su base settimanale, la frequenza in percentuale di coronavirus, virus e Covid (sostanzialmente i dati dei grafici qui sopra) con quella di polmonite. Come si vede, polmonite coesiste – seppur in proporzione inferiore – con virus fino all’ultima settimana di gennaio, quando coronavirus prende il sopravvento. Mentre possiamo considerare che nelle prime settimane i tre termini erano sostanzialmente sinonimi usati per designare una malattia poco conosciuta (ancora meno di adesso, in ogni caso), è assai probabile che nelle settimane più vicine a noi le poche occorrenze di polmonite servano a designare più precisamente uno degli effetti del virus più che il virus stesso o la malattia che provoca.

L’ultimo grafico, infine, si concentra sui contesti nei quali compaiono virus e coronavirus, e in particolare sulla maniera in cui le due parole sono specificate. I contesti considerati sono la modificazione per mezzo degli aggettivi nuovo, misterioso o cinese e del sintagma di Wuhan, mentre il colore blu indica la frequenza totale delle due parole quando non compaiono in uno di questi quattro contesti.

Da questo grafico emerge chiaramente che dalla fine di febbraio il (corona)virus non ha più bisogno di ricevere ulteriori specificazioni. Nelle settimane precedenti (se si esclude la prima di gennaio, in cui le 10 occorrenze di virus non si riferiscono a quello che ci interessa), si osserva invece uno slittamento progressivo del focus (o, se si preferisce, del ‘frame’ di riferimento): all’inizio è soprattutto il carattere ignoto (nuovo, misterioso) del virus ad essere saliente, mentre in una seconda fase (evidente soprattutto nella penultima settimana di gennaio) prevalgono le specificazioni di tipo geografico, immediatamente prima della diffusione planetaria del virus, che le rende obsolete (oltre che sconvenienti dal punto di vista della political correctness).

In conclusione

Queste osservazioni si basano, ovviamente, su dati numericamente ridotti e parziali: l’analisi del lessico di un solo quotidiano (che ho scelto per comodità di ricerca) non può riassumere l’insieme dei discorsi, istituzionali, mediatici e quotidiani (ossia quelli di noi tutti, ad esempio sui social network), sul virus. È comunque interessante vedere come i dati numerici illustrino e confortino la percezione che possiamo avere del fenomeno che da tre mesi ha fatto irruzione, in maniera così invadente, nelle nostre vite, e del nostro rapporto con esso: da una patologia indistinta e in parte sconosciuta a qualcosa che, pur essendo un nemico con effetti in molti casi tragici, è diventato parte integrante delle nostre vite, ed è così presente che possiamo trattarlo con una certa familiarità. Proprio a proposito di familiarità, c’è un’altra denominazione del fenomeno che comincia a diffondersi, e ad apparire anche sulla stampa, ed è l’accorciamento corona, che come molti accorciamenti serve ad esprimere una certa prossimità con l’oggetto designato (in questo caso prossimità negativa, ma pur sempre prossimità). Non l’ho incluso nei grafici qui sopra perché ancora troppo raro, ma ne ho comunque trovato 25 occorrenze su Repubblica nel periodo considerato, e la tendenza è anch’essa alla crescita. Ci sarà l’occasione di parlarne, magari, in un altro post.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.