In Francia ci si confina, in Italia si va in quarantena

Ognuno vive l’emergenza coronavirus a modo suo. Io, e immagino che sia così per diverse altre persone che vivono in un paese diverso da quello di origine, la vivo in maniera duplice: dal punto di vista amministrativo e pratico sono in confinamento in Francia, ma per ragioni affettive e, per così dire, ‘culturali’ sono stato ovviamente partecipe della quarantena in Italia. Questo mi permette di avere un doppio sguardo sul modo di gestire, vivere e comunicare l’emergenza in due paesi che – è banale dirlo – hanno molte similitudini, ma anche grandi differenze, sia costitutive che di circostanza, ad esempio legate al fatto che l’Italia è stata più o meno colta di sorpresa dall’esplosione del virus sul suo territorio, mentre la Francia ha avuto un paio di settimane in più per prepararsi.

Una quarantena di quattordici giorni?

Proprio a questo lasso di tempo si riferisce l’aneddoto che voglio raccontare per introdurre l’argomento di questo post. Fino alla chiusura delle attività in Francia, il 16 marzo, a chi tornava dai paesi a rischio, tra cui a partire dal 21 febbraio l’Italia (inizialmente solo Lombardia e Veneto), veniva chiesto di mettersi in quarantena per quattordici giorni prima di tornare alle proprie attività. In questa circostanza è nato in francese un neologismo per indicare una ‘quarantena di quattordici giorni’, quatorzaine. La sua diffusione è stata ovviamente rapida e, per quanto posso giudicare, abbastanza efficace; personalmente, l’ho sentito usato oralmente in più di un’occasione, ed è comparso anche sulla stampa, e addirittura in siti istituzionali. Penso che la fortuna di questo neologismo sia dovuta in parte al fatto che il suffisso -aine è un suffisso frequente in francese con i numerali (corrisponde al nostro -ina di decina, dozzina o ventina), e che perciò quarantaine è più trasparente del corrispettivo italiano quarantena nel trasmettere il significato di ‘periodo di quaranta giorni’. Ovviamente, anche in italiano ‘si sa’ (perlomeno coscientemente) che etimologicamente una quarantena è un periodo di quaranta giorni, e qualcuno ha anche provato a usare quattordicina o addirittura quattordicena, ma non si può certamente dire che queste parole abbiano avuto successo in italiano quanto quatorzaine in francese. E il motivo è che, a differenza del francese, in italiano non esiste una serie di parole in -ena alla quale riallacciarsi per costruirne di nuove (l’unica altra presente in italiano è la rarissima novena), e quarantena è perciò assai meno trasparente di quarantaine dal punto di vista del lessico implicito (l’unico che conti). Per chi fosse interessato ad approfondire, ne ha parlato anche l’Accademia della Crusca.

In Italia quarantena, in Francia confinamento

Se ho parlato di quatorzaine e quarantena è per introdurre un altro aspetto lessicale della questione che, dall’inizio dell’emergenza, continua a colpirmi. Le due prime pagine di le Monde che ho messo all’inizio di questo post sono eloquenti a riguardo. La prima, dell’11 marzo, annuncia la messa “in quarantena” dell’Italia, mentre la seconda, del 18, parla del “confinamento” della Francia. Entrambe parlano, sostanzialmente dello stesso tipo di misure, che la Francia ha adottato appunto circa una settimana dopo l’Italia. È un caso che vengano usate due parole diverse per lo stesso fenomeno in due paesi diversi? Potrebbe anche essere; ma il fatto è che le due edizioni di le Monde rispecchiano esattamente le tendenze in uso nelle due lingue. Cominciamo dai numeri. Come per il post precedente, la ricerca più semplice e immediata che si può fare è sui quotidiani. Gli istogrammi qui sotto mostrano la proporzione tra la frequenza dei termini quarantena / quarantaine e confinamento / confinement (con un ‘terzo incomodo’, lockdown, di cui parlerò più avanti) su Repubblica e su le Monde dal 1° gennaio al 9 aprile (ieri). I due istogrammi più sotto, invece, sono per così dire ‘di controllo’, e indicano la frequenza di virus, coronavirus e Covid (sostanzialmente gli stessi dati dello scorso post).

Come si vede, mentre per i termini che si riferiscono direttamente al virus (le colonne blu), c’è un certo equilibrio tra italiano e francese (o perlomeno tra i due quotidiani scelti come riferimento), quelli che si riferiscono alle misure di contenimento mostrano una differenza significativa: in italiano si va in quarantena, mentre in francese ci si mette in confinement. La domanda che viene spontanea, in questo caso, è “perché?”. Bene, chi cerca la risposta a questa domanda non la troverà nel seguito di questo post. Per un linguista (o per lo meno per me) la risposta a un perché linguistico – e in particolare lessicale come questo – deve tenere conto di un insieme di fattori, a volte anche casuali, e non può essere mai né immediata né semplice. Quello che un linguista può fare, invece, è cercare di osservare e interpretare i fatti, in questo caso il modo in cui per designare lo stesso concetto parole simili in lingue diverse hanno preso strade diverse. Il che non ha niente a che vedere, ovviamente, con la presunta maggiore precisione di una lingua (e nemmeno di una parola) rispetto all’altra.

Chi ha ragione?

Passiamo quindi a osservare le cose dal punto di vista qualitativo. All’origine (e etimologicamente) quarantena indica – come recita il Grande dizionario della lingua italiana di De Mauro – una “misura, profilattica, oggi spesso superata [sic!], consistente nell’isolamento forzato per quaranta giorni di individui, animali o cose provenienti da aree infette o sospettate tali”. In sé è quindi una parola assai più precisa di confinamento, che indica qualunque misura di isolamento, non necessariamente sanitario. È ovvio, però, che oggi (e da ben prima del coronavirus) anche quarantena può indicare per estensione un qualsiasi isolamento profilattico, indipendentemente dalla durata. A ciò si aggiunga il fatto che l’estensione di un nome di luogo per indicare le persone che lo occupano è un meccanismo semantico abituale nelle lingue (per cui quando diciamo “tutto lo stadio si è alzato in piedi”, capiamo immediatamente che sono le persone che vi si trovano ad alzarsi, e non l’impianto stesso), e si capisce come si arrivi, naturalmente, alla messa in quarantena di una nave (ad esempio la Diamond Princess), di una città (ad esempio Wuhan o Codogno) o di un’intera nazione. Anche in questo caso, si tratta di un effetto dell’indeterminatezza semantica del lessico delle lingue di cui ho parlato nel post precedente. Nel contesto appropriato, possiamo quindi considerare che confinamento e quarantena, nel senso ampio che ho descritto, sono sinonimi. È dunque evidente che la prevalenza dell’una o dell’altra parola in una lingua non dipenda da una maggiore o minore tendenza alla precisione, né da fattori puramente semantici, ma piuttosto da un insieme di fattori, alcuni dei quali non linguistici, come ad esempio le abitudini e le politiche linguistiche in vigore nei diversi paesi. Se proprio vogliamo trovare una ragione linguistica per giustificare la prevalenza di confinement in francese, è plausibile che la maggiore trasparenza di quarantaine rispetto ad un periodo di quaranta giorni, di cui ho parlato qui sopra, abbia giocato a sfavore di quest’ultima, facendola percepire come inadatta a designare un provvedimento di isolamento sociale generalizzato e di durata indeterminata. Ma si tratta solo un’ipotesi, impossibile da verificare. Quello che possiamo verificare, invece, è l’uso che viene fatto delle diverse parole nelle due lingue. Una prima, semplice, osservazione che possiamo fare riguarda il fatto che confinement e quarantaine sostanzialmente coesistano in francese, nonostante la netta prevalenza (più del doppio di occorrenze) del primo termine, mentre in italiano confinamento è estremamente raro. Per di più, se si vanno a guardare i 36 articoli in cui la parola compare su Repubblica nel 2020, ben 10 (quasi un terzo) riguardano l’emergenza coronavirus in Francia. È perciò del tutto verosimile che gli autori di questi articoli siano stati influenzati dal lessico in uso in questo paese per descriverne la situazione. Ma possiamo anche fare un’analisi più dettagliata. Per questa, anziché gli articoli nei quotidiani, difficili da analizzare uno ad uno manualmente (perlomeno nei tempi richiesti per un blog), ho usato gli articoli relativi alla pandemia nell’edizione italiana e francese di Wikipedia (aggiornate a ieri). La distribuzione delle parole che ci interessano è abbastanza simile a quella osservata per i quotidiani: in francese confinement e quarantaine coesistono (rispettivamente 41 e 43 occorrenze), mentre in italiano confinamento è addirittura assente, e quarantena compare 42 volte (ma l’articolo in francese è lungo quasi il doppio di quello in italiano). Più interessante ancora, però, è osservare il tipo di entità a cui si riferisce la parola quarantena nelle due lingue, che possono sostanzialmente essere suddivise in due tipi: luoghi (“mettere in quarantena Wuhan / l’Italia”) o persone (“mettere in quarantena i passeggeri provenienti dalla Cina”) (mentre Ø si riferisce agli usi assoluti, non specificati, ad esempio “provvedimenti di quarantena”).

I risultati, illustrati nel grafico qui sopra, mi sembrano abbastanza eloquenti: in italiano si mettono molto di più in quarantena i luoghi, in francese le persone (un uso, ricordiamolo, più vicino a quello originario). Senza dubbio perché in francese per i luoghi si preferisce parlare di confinement, e in effetti solo 6 delle 42 occorrenze di questa parola nell’articolo di Wikipedia in questione si riferiscono a persone. Anche in questo caso, si tratta di dati parziali ed esigui numericamente. Il loro interesse è soprattutto quello di suggerirci piste di riflessione eventualmente da approfondire.

Per concludere: il lockdown

Occupiamoci, per finire, della terza parola che ho incluso nei grafici qui sopra, l’anglicismo lockdown (che anche in inglese, tuttavia, è un’innovazione). Per quanto riguarda il francese è presto detto: su le Monde lockdown compare nel 2020 soltanto in tre articoli dedicati, rispettivamente, all’emergenza coronavirus in Svezia, in Olanda e in India. Si tratta quindi palesemente di un esotismo consapevolmente usato come tale. Su la Repubblica, invece, lockdown ha una frequenza ben maggiore di confinamento (192 occorrenze contro 36), tanto che meriterebbe probabilmente un post a sé. Qui possiamo almeno osservare che le prime volte che la parola lockdown compare sul giornale, verso l’inizio di marzo, è spesso accompagnata da segnali di una certa presa di distanza (ad esempio l’uso delle virgolette o di espressioni come “il cosiddetto lockdown”), presa di distanza che si stempera quasi a scomparire con il passare del tempo. Nell’edizione di ieri (che registra ben 21 occorrenze), ad esempio, si leggono frasi come “in attesa di capire se e di quanto il premier Conte prolungherà il lockdown” o “il lockdown cambia il volto e i colori di piazza del Plebiscito, tra i luoghi simbolo di Napoli”, segno di un’assoluta disinvoltura nell’uso di una parola inglese per fare riferimento alla realtà italiana, e senza percepire il bisogno di prenderne le distanze. Senza voler esprimere giudizi sull’opportunità di usare termini stranieri, possiamo almeno osservare che si tratta della migliore dimostrazione del fatto che le scelte lessicali operate dalle diverse lingue sono fortemente determinate da fattori extralinguistici, in questo caso le inclinazioni linguistiche dei media italiani, assai meno restii di quelli francesi nell’accogliere parole straniere.

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