Covid è maschio o femmina? (con updates)

Questo post si propone di mostrare come anche una questione minuscola, che può sembrare di poco conto, o addirittura una questione di tetrapiloctomia (chi non sa cosa voglia dire può andarlo a vedere qui), può invece darci indicazioni interessanti sul modo in cui usiamo la lingua e, parallelamente, dirci qualcosa sul nostro modo di concettualizzare la realtà (in questo caso, l’unica che da qualche mese ci interessa, la pandemia). La domanda che mi interessa qui riguarda il nome della malattia provocata dal coronavirus attualmente in circolazione: “Covid è maschile o femminile?”. Non sono, ovviamente, il primo a pormela: se ne è parlato, ad esempio, nello spazio “Lingua italiana” del sito Treccani.it, l’Accademia della Crusca si è brevemente espressa sull’argomento su Twitter (ne parlerò più avanti), e anche molti utenti ‘anonimi’ lo hanno fatto.

Storia di un termine

Andiamo con ordine: come ho ricordato in uno dei post precedenti, l’11 febbraio scorso l’Oms ha annunciato di aver attribuito il nome Covid-19 alla malattia causata da un particolare tipo di coronavirus chiamato SARS-CoV-2. (Sarebbe interessante una discussione su una civiltà in cui il nome di una malattia potenzialmente devastante per l’umanità viene annunciato in pompa magna su Twitter, contemporaneamente all’hashtag corrispondente, ma questo blog si occupa esclusivamente di questioni linguistiche). Per una lingua come l’italiano, si pone immediatamente il problema di decidere il genere della nuova parola. Cerchiamo di inquadrare bene la questione: un’istituzione straniera introduce una nuova parola che in brevissimo tempo ha una diffusione enorme in tutte le lingue, compresa la nostra. Rapidissimamente, quindi, gli italiani devono ‘arrangiarsi’ nel trovare un uso condiviso, o perlomeno accettabile, per questo neologismo. Tra parentesi, in francese e in spagnolo si pone esattamente la stessa questione legata al genere di Covid(-19) (ed è possibile che in altre lingue se ne pongano altre, altrettanto interessanti). Osserviamo che, al momento dell’introduzione del termine, i parlanti non dispongono di alcuna indicazione esplicita su come usare la parola (l’intervento dell’Accademia della Crusca a cui farò riferimento qui sotto è dell’8 marzo). In assenza di regole dettate dall’esterno, possono basarsi solo sulla loro conoscenza implicita dei principi in atto nella lingua. È proprio questo uso spontaneo, o se si preferisce questo meccanismo di autoorganizzazione, che trovo interessante approfondire. Lo scopo di questo post non è quindi di indicare se ‘si deve dire’ il Covid o la Covid, ma di osservare quello che i parlanti fanno, cercando di capire (e di spiegare) perché.

Il Covid o la Covid?

Devo confessare che, prima di pensare a questo post, intuitivamente per me l’unica forma veramente disponibile era il Covid, al maschile. Per verificare, da una parte l’attendibilità di questa intuizione, e dall’altra il suo peso, ho cercato le sequenze “il Covid” e “la Covid” (in tutte le varianti possibili, ad esempio “del Covid”, “al Covid”, etc.) in tre quotidiani italiani (la Repubblica, il Sole 24 ore e la Stampa) e in due quotidiani on-line (il Post e Linkiesta) fino al 16 aprile. Come ho spiegato nel primo post di questo blog, la Repubblica è l’unico quotidiano che permette di fare ricerche precise e affidabili attraverso il suo sito Web. I dati che si riferiscono agli altri quotidiani sono stati raccolti via Google, che è sicuramente un sistema meno affidabile. Si può essere però moderatamente sicuri dei risultati, visto che le differenze osservabili non sono enormi, soprattutto in termini percentuali (tranne che per un quotidiano, di cui parlo qui sotto). Il grafico a sinistra mostra i risultati assoluti ottenuti per ciascun quotidiano, quello a destra la distribuzione della forma maschile (in blu) e della forma femminile (in arancio) in percentuale.

Come dicevo, l’unica eccezione è rappresentata dal Post, che, a quanto pare, ha fatto la scelta editoriale esplicita di utilizzare la forma femminile per segnalare il fatto che è della malattia e non del virus che si sta parlando (e c’è chi ha apprezzato), anche se un certo numero di forme al maschile si sono comunque intrufolate.

I dati parlano abbastanza chiaro: nell’uso spontaneo (non cosciente) il maschile prevale sul femminile in una proporzione che oscilla tra il 93% e il 98%. Un secondo elemento che possiamo tenere presente è l’evoluzione nel tempo. In questo caso, uso di nuovo i dati di Repubblica, che sono i più affidabili, e hanno il vantaggio di poter essere confrontati con quelli che ho presentato nel primo post. Come abbiamo visto allora, nel quotidiano la parola Covid subisce un primo incremento a partire dal 21 febbraio (la data in cui vengono scoperti i primi casi autoctoni in Italia), per attestarsi a partire da metà marzo su una frequenza che oscilla intorno alle 100 occorrenze giornaliere. Tra tutte le occorrenze di Covid, le forme al femminile, però, appaiono abbastanza sporadicamente e non presentano alcuna variazione significativa, segno del fatto che si tratta di usi occasionali, e che la forma realmente consolidata nell’uso (perlomeno del giornale in questione) è quella maschile.

Una verifica: Covid su Twitter

Ma possiamo realmente considerare che l’uso fatto dai giornali rispecchia fedelmente l’uso spontaneo della lingua da parte dei parlanti? Dopotutto, ho osservato che un quotidiano si distingue dagli altri, proprio per una scelta editoriale consapevolmente portata avanti. La lingua usata nei quotidiani può quindi essere determinata da prese di posizione editoriali, scelte stilistiche, addirittura da idiosincrasie di singoli giornalisti, o dal desiderio di incidere sulle scelte linguistiche dei lettori. Per verificare l’attendibilità dei dati esposti qui sopra, ho quindi cercato le occorrenze di “il / la Covid” (secondo le stesse modalità usate per i quotidiani) su Twitter. Per motivi pratici, ho limitato la mia ricerca ai primissimi giorni di diffusione della nuova sigla, dall’11 al 23 febbraio. Dopo quella data, le occorrenze diventano troppo numerose per un’analisi manuale. Ovviamente, fare una ricerca indiscriminata su Twitter non è particolarmente ‘ecologico’: oltre ai tweet di utenti anonimi (ma per questo assai più interessanti per osservare l’uso spontaneo delle forme linguistiche), si hanno buone probabilità di includere nel conteggio tweet provenienti da conti istituzionali, di media ufficiali, di personaggi pubblici, etc. È però anche ragionevole pensare che la quantità di dati raccolti sia tale da permettere di considerarli comunque significativi. La prima osservazione che possiamo fare su questi dati è che la loro distribuzione è del tutto simile a quella che abbiamo osservato sui quotidiani: il maschile predomina al 97,22% sul femminile. I dati di Twitter sono in linea con quelli di almeno tre dei cinque quotidiani considerati. Dal punto di vista cronologico, poi, si può osservare che, senza sorprese, a partire dal 21 febbraio l’uso del termine conosce una crescita esponenziale, ma che l’uso del maschile è prevalente fin dai primissimi giorni. I due grafici qui sotto si riferiscono all’andamento delle due forme in tutto il periodo considerato e nel periodo pre-21 febbraio.

Perché Covid dovrebbe essere femminile?

La prevalenza del maschile rispetto al femminile per la sigla Covid sembra dunque indiscutibile, e si tratta di una prevalenza larga, stabile nel tempo, e soprattutto che ha avuto tendenza ad installarsi nell’uso fin dai primissimi giorni che hanno seguito l’introduzione della parola in italiano. A differenza del post precedente, questa volta mi autorizzo ad interrogarmi sul perché di una tale prevalenza. Per farlo, osserviamo innanzitutto le ragioni dei fautori dell’uso del femminile. Tutti, a partire dal più illustre di loro, l’Accademia della Crusca, sostengono che Covid(-19) debba essere femminile perché designa la malattia (mentre per SARS-CoV-2, che indica il virus, occorre usare il maschile). Penso però che gli accademici siano ben coscienti del fatto che è l’uso, in ultima istanza, a decidere non tanto quello che ‘bisogna’ fare, ma quello che, in quanto parlanti, facciamo comunque, perché alla fine quello che conta è parlare una lingua condivisa con gli altri (io stesso, nel mio piccolo, è una delle poche banalità linguistiche che mi sento di condividere senza esitazioni). E l’uso, in questo caso, è così inequivocabile che agli stessi fautori della ‘femminilità’ del(la) Covid può capitare di inciampare.

La pretesa di usare Covid al femminile, in quanto scelta cosciente di una parte dei parlanti è, come si vede, destinata ad essere frustrata, se l’insieme degli altri utenti della lingua decide altrimenti. Non è però del tutto ingiustificata. Direi piuttosto che è insieme giustificata e ingiustificata. Ingiustificata perché non è vero che il nome di una malattia debba necessariamente essere femminile in italiano: ci sono ad esempio il diabete, il morbillo, il paludismo e tante altre. È giustificata, invece, per motivi più profondi. Come ha mostrato, tra gli altri, la mia collega Anna Thornton, l’assegnazione del genere ai prestiti (ed è innegabile che Covid lo sia), e in generale alle parole per le quali questa operazione non è scontata (ad esempio perché non finiscono per -o o per -a), avviene principalmente sulla base della prossimità semantica. In particolare, a determinare il genere di una parola è quasi sempre il suo iperonimo più saliente (la parola con un significato più generale che la ingloba), che nel caso del(la) Covid si considera sia, appunto, malattia (e la d finale sta proprio per disease, in inglese). Come sempre quando si tratta di lingua, e in particolare di questioni lessicali come questa, però, si tratta non di principi ferrei, ma di tendenze che possono non essere rispettate sotto l’influenza di altri fattori. Cosa ha determinato, quindi, che in questo caso si transigesse alla ‘regola’ in questione? A questo punto, è forse utile un excursus storico. L’incertezza sul genere di Covid ha almeno un precedente, Aids, un’altra sigla mutuata dall’inglese, e che rimane poco trasparente in italiano. Oggi Aids è (almeno per me) inequivocabilmente maschile, ma a quanto pare negli anni ’80, quando la parola è stata introdotta, l’uso oscillava tra il maschile e il femminile, e ancora a metà degli anni ’90 ci si poteva porre la questione. Un esempio simile è quello di Sars, la malattia provocata da un virus simile a quello attuale nei primi anni 2000 in Cina (e dove una delle s sta per sindrome). La Sars è inequivocabilmente femminile, ma, spulciando sempre nelle annate de la Repubblica si trovano frasi come “Ci si sforza di contenere l’impatto del Sars sottolineando che il bilancio delle vittime è ancora modesto” (27 aprile 2003), segno del fatto che l’uso conosceva qualche incertezza al momento dell’esplosione di quell’epidemia.

La concettualizzazione del virus e della malattia

Quello che Covid, Aids e Sars hanno in comune è il fatto di essere malattie provocate da virus. Il punto che voglio sviluppare è proprio questo: nell’usare il maschile i parlanti non violano il principio della prossimità semantica di cui ho parlato sopra. La risposta va cercata piuttosto nella formula che ho usato, “l’iperonimo più saliente”. E qual è, nella comunicazione sull’epidemia, l’elemento – il concetto – più saliente? La malattia c’è, è evidente, ma non si può negare che la ‘star’ sia il virus, che si presenta a noi sotto forma di immagine, parola, idea diverse centinaia di volte al giorno, e si imprime sui nostri neuroni fino ad occupare il posto d’onore (e cioè essere la prima cosa che il nostro cervello recupera quando va a cercare informazioni sulla pandemia). Insomma, dire il Covid, come facciamo ampiamente, indica che, nel senso comune il virus e la malattia che provoca si sovrappongono fino a confondersi. È proprio questa confusione, peraltro, che denunciano i fautori della Covid al femminile nei tweet che ho messo in link. Possiamo quindi dire che il problema non è tanto di principi grammaticali (che sono applicati correttamente), ma piuttosto di categorizzazione (di quella che in inglese si chiama, felicemente, folk taxonomy). A supporto di questa ipotesi posso riportare un ultimo calcolo: su Twitter la sequenza “il virus Covid(-19)” compare 133 volte, un numero certo non enorme, ma comunque indicativo dell’identificazione (o la confusione) tra il virus e la malattia in una parte del pubblico. È grave non distinguere una malattia dal virus che la provoca? È certamente grave per un medico, un infettivologo o per chiunque si occupi di queste cose dal punto di vista scientifico (ed è il motivo per cui agenzie come l’Oms attribuiscono nomi precisi e univoci ai diversi oggetti). Per tutti gli altri, sarebbe ovviamente utile avere chiaro in testa di cosa si sta parlando (ma l’analfabetismo scientifico, in Italia e altrove, trascende largamente le questioni di genere grammaticale). Tuttavia, non possiamo negare che, per i non specialisti, sul piano pratico è difficile distinguere tra un organismo intangibile (benché in rete e sui giornali se ne vedano diverse rappresentazioni) e la malattia, che invece è qualcosa di assai concreto. È difficile dal punto di vista della nostra concettualizzazione della realtà, e lo è, di conseguenza, dal punto di vista linguistico. L’indeterminatezza semantica, che si verifica necessariamente quando una parola passa da un linguaggio specialistico alla lingua comune (ne ho già parlato in un post precedente), fa il resto, rendendo Covid e coronavirus sostanzialmente sinonimi per il ‘parlante della strada’.

[Update 1: pochi giorni dopo la pubblicazione di questo post, il servizio comunicazione della mia università ha messo online un editoriale in cui, con motivazioni più che discutibili, rivendicava il fatto di usare, in francese, il femminile piuttosto che il maschile per Covid. Io e la mia collega Anne Condamines abbiamo scritto una risposta (nella quale compaiono diversi dei punti trattati in questo post), che ora si può leggere sul sito del mio laboratorio].

[Update 2: dopo aver scritto questo post, mi sono reso conto che esiste un altro uso di Covid, di cui non ero cosciente. Si tratta di un uso senza articolo (e di conseguenza senza che sia possibile determinarne il genere), di cui ho trovato, finora pochi esempi. Tre in un articolo di Paolo Giordano sul Corriere della sera del 25 febbraio (ad esempio “Non abbiamo anticorpi contro Covid-19, ma ne abbiamo contro tutto ciò che ci sconcerta”) e due in un’intervista al “paziente 1” di Codogno su Repubblica del 21 aprile (ad esempio “mi sono svegliato dopo venti giorni a Pavia, sopravvissuto a Covid-19”). Gli esempi che ho trovato sono abbastanza distanziati nel tempo da far pensare che si tratti di un uso che, seppur marginale, è abbastanza installato nelle abitudini e stabile. Da notare che in entrambi gli articoli compaiono molte più occorrenze di Covid usato al maschile con l’articolo determinativo. Fare una stima della diffusione reale di questi usi è difficile, perché formalmente possono essere simili agli usi generici del tipo malato di Covid / di varicella / di diabete. Simili, ma non identici, perché in italiano non potremmo dire, come negli esempi qui sopra anticorpi contro varicella o sopravvissuto a varicella. Ho l’impressione, invece, che negli esempi come quelli qui sopra, Covid sia trattato come un nome proprio, un uso che difficilmente riesco ad immaginare per altre malattie, comprese quelle recenti (anticorpi contro Aids?, bah…) o addirittura, paradossalmente, quelle che derivano da nomi propri (sopravvissuto ad Alzheimer?, ancora peggio). Se è vero, ci sono probabilmente molti fattori per questo; uno, semplice, è il fatto che Covid si scrive, senza eccezioni con la maiuscola. L’altro, più profondo secondo me, è la familiarità che, nostro malgrado, abbiamo acquisito, da tre mesi a questa parte, con una malattia che è onnipresente nei discorsi che ascoltiamo, leggiamo o facciamo. Da questo punto di vista, trattare Covid come qualcosa a cui possiamo attribuire un nome proprio va nella direzione (e ne è anzi una manifestazione estrema) del fenomeno di individualizzazione della malattia (o del virus) di cui ho parlato nel mio primo post.]

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.