A proposito degli asintomatici

Una delle parole dell’estate della pandemia è senza alcun dubbio asintomatico. È una delle tante parole che, prima dell’emergenza Covid, avevano un uso estremamente limitato al di fuori della cerchia degli specialisti, e la cui diffusione ha conosciuto una crescita esponenziale negli ultimi mesi. Tanto per fare un esempio, la frequenza della parola nel periodo gennaio-agosto 2020 su la Repubblica è di 1.698 occorrenze, mentre nei 36 anni precedenti (il sito del quotidiano permette di eseguire ricerche a partire dal 1984) era stata impiegata soltanto 636 volte (poco meno di 18 volte l’anno). Le ragioni del successo della parola sono evidenti: le persone infettate dal coronavirus che non presentano sintomi costituiscono un elemento assai rilevante nel quadro della pandemia, e in particolare nella prevenzione della diffusione del virus. Più nel dettaglio, la curva qui sotto rappresenta l’andamento della frequenza di asintomatico su Repubblica da gennaio ad agosto. Possiamo dedurne che quello che possiamo provvisoriamente chiamare il fenomeno degli asintomatici è stato rilevante fin dallo scoppio dell’epidemia in Italia e nel periodo di massima allerta (marzo e aprile, dove la curva è al suo massimo), ha perso interesse all’inizio dell’estate, per poi tornare in auge nel mese scorso, con l’aumento considerevole di casi positivi identificati (soprattutto, appunto, asintomatici) e l’avvicinarsi della ripresa dopo la pausa estiva.

Sintassi e semantica di asintomatico

Come abbiamo già visto per altre parole messe in primo piano dall’emergenza Covid, un ‘boom’ di queste proporzioni inevitabilmente ha un impatto sull’uso di una parola, sul suo significato e sui suoi contesti di impiego. È di questo aspetto che voglio occuparmi in questo post, osservando appunto come l’uso della parola si è trasformato con la sua uscita dal lessico specialistico della medicina dove, di fatto, era confinata fino al febbraio di quest’anno, e la diffusione nella lingua comune. Anche in questo caso, prenderò come corpus di riferimento la Repubblica (nella versione cartacea e online). Come ho già spiegato, non considero necessariamente che un quotidiano sia il rappresentante perfetto della lingua italiana attuale. È anche vero, però, che esso contiene una mole di dati tale da poter dare indicazioni assai precise dell’evoluzione linguistica, soprattutto in un periodo breve come quello che ci interessa. Il sito Web de la Repubblica, poi, presenta il vantaggio non trascurabile di consentire ricerche dettagliate in modo semplice e rapido.

Una prima osservazione che possiamo fare è che asintomatico funziona in italiano sia come aggettivo che come nome. Ovviamente, come attesta la presenza del suffisso, asintomatico è in origine un aggettivo. È tuttavia assai frequente che un aggettivo che può qualificare referenti umani venga nominalizzato per designare una categoria che possiede la qualità in questione in maniera saliente (i vecchi,  i ricchi…). Durante la pandemia, ad esempio, oltre agli asintomatici, sono emerse o si sono diffuse altre categorie, come i contagiati, i positivi, i guariti, etc. È interessante osservare anche la distribuzione delle due categorie: nel periodo 1984-2019 ho identificato solo 5 occorrenze in cui asintomatico è utilizzato come nome (l’1,07% del totale), mentre nel 2020 ne ho trovate 322, che corrispondono al 19% del totale. Oltre al notevole incremento che ha conosciuto in termini di occorrenze totali, quindi, si può dire che asintomatico ha anche subito (o sta subendo) uno slittamento grammaticale, da aggettivo vero e proprio a designatore di una classe di umani, ibrido tra nome e aggettivo. Le proprietà grammaticali in questione possono essere correlate ad altri fattori. Per prima cosa, osserviamo il grafico qui sotto, che mostra la frequenza di asintomatico (indipendentemente dalla categoria) al singolare (quindi le forme asintomatico e asintomatica, in blu) e al plurale (asintomatici e asintomatiche, in arancio). Come si vede, anche in questo caso la parola ha subito, nell’uso che se ne fa, una notevole trasformazione: da un relativo equilibrio tra le forme (con una lieve prevalenza del singolare) si è passati ad una netta preponderanza delle forme plurali, che nel 2020 sono quasi tre volte più frequenti di quelle singolari.

È difficile che un cambiamento così spettacolare sia casuale. E infatti, a guardarci bene, l’uso al plurale può essere facilmente associato alla designazione di una classe di oggetti (o piuttosto di individui in questo caso). Che sia usata come nome (gli asintomatici) o come aggettivo (i soggetti, i casi, le persone asintomatici/he), dall’inizio della pandemia in poi la parola serve principalmente a designare un insieme di persone che via via è stato sempre di più identificato come una categoria distinta e degna di essere nominata.

In secondo luogo, è interessante osservare più da vicino il comportamento di asintomatico quando è usato come aggettivo, e in particolare i tipi di nomi a cui può essere associato (quelli che tecnicamente in sintassi si chiamano ‘nomi testa’). Intuitivamente, anche tenendo presente quello che si è osservato qui sopra, avremmo probabilmente tendenza a pensare che, tipicamente, l’aggettivo modifichi un nome testa a referente umano. In realtà, la situazione sembra essere più variegata. Osservando nel dettaglio i dati, ho potuto in effetti identificare almeno le macro-categorie di nomi testa seguenti (tutti gli esempi sono tratti da Repubblica e, per motivi che risulteranno evidenti tra poco, si riferiscono soprattutto al periodo precedente la pandemia):

  • persona: “I sintomi sono gli stessi degli adulti e sono parecchi i bambini asintomatici” [2 aprile 2020]
  • malattia: “…a una persona su cento abbiamo scoperto un tumore asintomatico” [27 gennaio 2005]
  • terapia / esame: “Nove mesi per una mammografia asintomatica, cioè senza un sospetto diagnostico” [4 febbraio 2009]
  • periodo / fase: “Sulla trasmissibilità del virus nella fase asintomatica o presintomatica non si sa quasi nulla” [13 luglio 2020]
  • altro essere vivente: “In zona endemica i cani infetti asintomatici sono stimati essere circa il 50 per cento degli infetti” [8 maggio 1997]

A questi tipi semantici occorre aggiungere i cosiddetti ‘nomi supporto’, ossia sostantivi che non rinviano a un referente preciso, ma hanno piuttosto una funzione grammaticale (nel caso qui sotto, ad esempio, delimitare un tipo specifico di influenza tra i vari possibili):

“l’influenza si può contrarre in forma asintomatica” [31 gennaio 2014]

Anche in questo caso, la differenza tra il periodo pre- e post-Covid è notevole. I due grafici che seguono riportano la distribuzione dei diversi tipi di nomi testa con l’aggettivo asintomatico nel periodo 1984-2019 e nel 2020.

Innanzitutto, come si vede, prima della pandemia la gamma di nomi che l’aggettivo asintomatico poteva modificare era molto più ampia di quella attuale. Ad essere asintomatiche, poi, erano principalmente le malattie (i nomi testa più frequenti nel periodo sono, nell’ordine, malattia, infezione, patologia, tumore); dall’esplosione del Covid in poi, invece, sono asintomatiche quasi esclusivamente le persone (nell’ordine persona, positivo, paziente, soggetto), mentre alcuni tipi di nomi testa sono praticamente scomparsi. Anche questi dati, è evidente, vanno nel senso di una specializzazione dell’aggettivo per designare una categoria specifica e ben identificata di persone.

Per quanto riguarda le occorrenze di asintomatico che qualificano nomi di persone, poi, è possibile – e interessante – realizzare un’osservazione più precisa, ripartendo la categoria in questione in sottocategorie più ristrette. In particolare, tra i nomi in questione ritroviamo:

  • nomi che si riferiscono genericamente a un individuo (persona, individuo, soggetto…);
  • nomi che rinviano al ruolo svolto da una persona nella società (ad esempio medico, infermiere/a, ma anche giocatore, dal momento che si è molto parlato dei contagiati da coronavirus nel calcio e negli altri sport);
  • nomi che si riferiscono specificamente a persone affette dal Covid (sostanzialmente malato e paziente)
  • nomi propri di individui (in constesti come Sinisa Mihajlovic, che salterà anche questo ritiro perché positivo asintomatico al Covid [25 agosto 2020]).

La ripartizione tra le diverse categorie con riferimento al 2020 è fornita nel diagramma qui sotto:

Senza sorpresa, le parole che si riferiscono genericamente a persone costituiscono più della metà dei nomi testa associati all’aggettivo asintomatico nel 2020. In altre parole, costruzioni come persona / individuo / soggetto asintomatico sono quelle che si trovano più frequentemente con l’aggettivo.

Si può essere contemporaneamente paziente e asintomatico?

Un gruppo che merita di essere osservato più nel dettaglio, però, è quello costituito dal 14% dei nomi testa che denotano esplicitamente un ‘malato’. Preciso che l’ispirazione per la discussione che segue mi è venuta lo scorso agosto, durante le vacanze estive, la prima volta che ho sentito alla radio (o mi sono reso conto di aver sentito) l’espressione paziente asintomatico, che sulle prime ho trovato un po’ incongrua. Nella mia competenza, infatti, paziente si trova all’estremo di una scala che comprende anche sano e malato. I due ultimi termini sono ovviamente in opposizione, mentre paziente e malato sono in una sorta di relazione di iperonimia / iponimia: se paziente è qualsiasi persona presa in cura da un medico o da un ospedale, si può essere un malato senza essere un paziente, mentre il contrario dovrebbe essere più raro. Ora, se nel contesto del Covid asintomatico designa una persona che è stata infettata dal virus ma, sostanzialmente, si sente bene, parlare di pazienti asintomatici mi sembrava contraddittorio. In realtà, osservando attentamente i dati, mi sono reso conto che la situazione è più complessa. Innanzitutto, esistono esempi, come quelli qui sotto, in cui una persona è effettivamente ricoverata in un ospedale per altre cause, ed è quindi a tutti gli effetti un ‘paziente’, ma è asintomatica al coronavirus (gli esempi sono sempre tratti da Repubblica):

La signora era ricoverata già da due mesi […] è probabile che l’anziana sia stata contagiata da persone esterne: da familiari, da operatori o da altri pazienti asintomatici. [10 aprile]

Adesso arrivano tanti pazienti asintomatici, con tamponi negativi, che una volta curati per altri motivi poi si rivelano contagiati. [5 giugno]

In altri casi, invece, paziente sembra effettivamente essere sinonimo di persona, affetta dal coronavirus, ma non necessariamente malata, e di conseguenza non in cura:

Esistono infatti pazienti asintomatici: portatori sani che pur non mostrando alcun segno della malattia sono stati contagiati e possono contagiare altre persone. [23 maggio]

Sono 31 le persone positive al coronavirus registrate ieri in Emilia-Romagna: in 23 casi si tratta di pazienti asintomatici scovati grazie ai test sierologici. [1 giugno]

In casi come questi, si ha l’impressione che paziente voglia semplicemente dire ‘soggetto’ / ‘persona’. La questione, ovviamente, travalica l’ambito strettamente linguistico. Nei mesi scorsi perfino i medici (almeno quelli che si esprimono sui media) si sono divisi tra quelli che sostenevano che gli asintomatici fossero da considerare malati e quelli che rifiutavano tale posizione, e in queste condizioni è normale per i non specialisti essere perplessi, come testimonia, tra i tanti esempi, questo dibattito Twitter. La situazione è poi complicata dal fatto che avere o non avere sintomi è in parte soggettivo, e che un asintomatico può in realtà essere un ‘presintomatico’ che prima o poi svilupperà i sintomi. Non ho ovviamente la pretesa di dirimere la questione; posso però ricordare che il fatto di chiamare pazienti (o malati) asintomatici persone contagiate dal virus (e contagiose) ma che non sono in cura è reso possibile, tra l’altro, dall’indeterminatezza semantica che le parole strutturalmente hanno, e di cui si è già parlato in diversi dei post precedenti. È del tutto prevedibile che il referente che associamo alla parola paziente vari a seconda dei parlanti, ed è concepibile che per chi lavora nella sanità la parola sia talmente frequente e ‘attiva’ nel lessico da diventare una sorta di ‘passepartout’. Insomma, se per i medici ognuno di noi è un (almeno potenziale) paziente, è anche in parte colpa della semantica.

Asintomatici o portatori sani?

Il primo degli esempi qui sopra, poi, introduce un’altra questione sulla quale c’è stato un certo dibattito nelle ultime settimane (compreso nel tweet citato qui sopra e nei suoi commenti). In esso paziente asintomatico viene considerato sinonimo di portatore sano, un’altra manifestazione del paradosso di cui ho parlato sopra. Prima del Covid, nella mia competenza di parlante, portatore sano era il termine ‘neutro’ per designare una persona infettata da un virus e potenzialmente contagiosa, ma esteriormente in buona salute. A quanto ricordo, ad esempio, nel discorso sulla prevenzione dell’Aids negli anni ’80 e ’90, perlomeno quello destinato al grande pubblico, si parlava essenzialmente di portatori sani. Tale impressione andrebbe ovviamente verificata con dati più ampi e oggettivi, ed infatti la situazione è probabilmente un po’ più complessa. Il grafico qui sotto mostra la frequenza rispettiva di asintomatici e portatori sani dal 1900 ad oggi su Google ngrams, che raccoglie i dati presenti in Google books (in questo caso ho scelto il plurale perché si tratta della forma sistematicamente più frequente).

Come si vede, portatore sano ha avuto una frequenza nettamente maggiore fino all’incirca alla metà degli anni ’70. Se facciamo l’ipotesi che le due espressioni sono in una sorta di distribuzione complementare, e quindi intercambiabili, possiamo considerare che a partire da quel momento asintomatico ha massicciamente sostituito portatore sano. Una spiegazione possibile, anche considerando come è costituito Google books, è che alla base dell’inversione vi siano, almeno in parte, le consuetudini in uso nella letteratura specialistica di ambito medico. I dati di Google ngrams si fermano al 2019, quindi al periodo pre-pandemia. Per avere un’idea dell’evoluzione post-Covid, invece, possiamo usare di nuovo i dati giornalistici. Il primo grafico qui sotto mostra la frequenza relativa di portatore sano e asintomatico (questa volta in tutte le loro declinazioni) su Repubblica negli ultimi cinque anni prima della pandemia. Come si vede, almeno nel quotidiano in questione, le due forme più o meno si equivalgono, con una leggera prevalenza di portatore sano (59,6 occorrenze annuali in media, contro 45,8 per asintomatico).

Il secondo grafico, invece, mostra la distribuzione delle due espressioni nei primi otto mesi del 2020. In questo caso, a partire da febbraio, e soprattutto da marzo, si assiste ad un’esplosione di asintomatico, sia in termini assoluti (per ovvie ragioni), sia relativamente alla frequenza di portatore sano.

È ovviamente presto per dirlo, ma è possibile che un altro degli effetti linguistici della pandemia sia quindi la sostituzione definitiva dei ‘vecchi’ portatori sani con gli asintomatici. Ripeto che non si tratta, neanche in questo caso, di formulare giudizi di valore o di opportunità su questa scelta lessicale, ma semplicemente di osservare dei fatti. È possibile che portatore sano abbia pagato il fatto di apparire, da un lato, come troppo poco tecnica, e dall’altro come troppo rassicurante, in un contesto in cui tutto tende ad essere drammatizzato. Ma qui siamo nel regno delle supposizioni, che restano difficili da dimostrare, e sono anche un po’ oziose, una volta che una parola ha acquisito (come sembra asintomatico stia facendo) lo status di termine consacrato per designare una certa realtà, poiché è del tutto plausibile che i parlanti la usino in maniera sempre più neutra e priva di connotazioni particolari.

Asintomatico oltre gli asintomatici

Per concludere, vorrei parlare brevemente di un altro fenomeno che solo all’apparenza è aneddotico e decorrelato da quanto osservato finora a proposito di asintomatico. Sicuramente sull’onda della diffusione avuta nell’ambito del discorso sulla pandemia, infatti, la parola ha cominciato ad essere usata al di fuori dello stretto ambito medico, in senso metaforico. E anche se si tratta di un’estensione di significato estremamente recente, è possibile osservare un embrione di evoluzione semantica, che sarà interessante seguire nei prossimi mesi (a meno che, come è del tutto possibile, la parola non si riveli essere una moda passeggera). Spulciando le occorrenze di asintomatico su Twitter e altrove, mi sono infatti imbattuto in diversi esempi, che mi sembra di poter suddividere in tre categorie. La prima è costituita da esempi in cui asintomatico viene usata associata ad una proprietà che si vuole chiaramente negare in senso ironico.

Pd e M5S saranno il nuovo centrosinistra asintomatico.

Un intelligente che si comporta da deficiente è un deficiente o un intelligente asintomatico?

Nella seconda, evidente estensione della precedente, l’aggettivo sembra cominciare ad acquisire un senso di approssimazione, avvicinandosi in questo caso a prefissoidi come pseudo- o simil-:

Secondo me #Matuidi è un calciatore asintomatico.

Nel prepartita Rai che ha preceduto Juventus-Milan c’è stato anche Enrico Varriale, in qualità di giornalista sportivo asintomatico.

Per finire, in una serie di esempi, asintomatico sembra aver perso ogni legame semantico con la malattia, e anche con una qualsivoglia approssimazione, e sembra aver acquisito un valore genericamente dispregiativo (sempre che negli esempi in questione non abbia giocato anche l’assonanza tra asintomatico e asino):

Gagliardini, la prossima volta invece che con i piedi provaci con le orecchie, che la metti dentro. Somaro Asintomatico.

#Speranza dice mascherine e distanziamento fino al vaccino. Vaccino? Quale vaccino? Quello che non mi farò? Il ministro più asintomatico della storia torna a ragliare.

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