Covid è veramente (solo) il nome di una malattia?

[Questo post è il secondo, dopo quello su Covid come nome proprio frutto della collaborazione con Fabio Del Prete]

Come annunciato in quello precedente, in questo secondo post dedicato alla parola Covid ci occupiamo del suo significato. Nel raccogliere il materiale e nel riflettere intorno alla natura di nome proprio o nome comune di Covid ci è venuto abbastanza naturale porci domande sul suo significato, se sia possibile darne una caratterizzazione uniforme, e se le proprietà semantiche di questa parola siano specifiche ad essa o, invece, condivise con altre che hanno caratteristiche simili. Se dedichiamo un intero post all’argomento, è evidente che consideriamo che la questione non è così semplice. Al contrario, le osservazioni che faremo ci spingono ad interrogarci su che cosa significhi, più in generale, essere un ‘nome di malattia’ e in che modo esso si inserisca nel lessico di una lingua.

Cos’è un nome di malattia?

Nel post precedente abbiamo già fatto allusione alla semantica di Covid, ma ci siamo limitati a sostenere, senza argomentare troppo la cosa, che si tratta di un nome di malattia. Possiamo considerare che una malattia è un’entità astratta, di cui noi percepiamo unicamente le manifestazioni concrete, ad esempio i sintomi riscontrabili in un malato, o gli indicatori che risultano da un’analisi, e che un nome di malattia designa dunque una tale entità. L’avere un referente unico, ancorché astratto, era uno dei fattori che ci hanno permesso di sostenere che Covid funziona, almeno in certi contesti, come un nome proprio. Nel corso della discussione abbiamo cercato di correlare questo significato al comportamento sintattico della parola Covid, riscontrando che esso è più simile a quello di nomi astratti come paura e di nomi massa come acqua che a quello di nomi (comuni) concreti e numerabili come libro. Ma è proprio vero che Covid (come altri nomi di malattia) si comporta sempre e soltanto come nome (tendenzialmente proprio) di un’entità astratta? Già per alcuni dei casi che abbiamo discusso in precedenza la risposta è no. Avevamo osservato, ad esempio, che la presenza di quantificatori (articoli indeterminativi, numerali, etc.) può indurre una lettura ‘individualizzante’ di questi nomi, ad esempio in una varicella con complicazioni o un diabete di tipo 1, la cui interpretazione più naturale è, rispettivamente, ‘un caso’ e ‘un tipo di’. Confrontiamo i seguenti esempi (i primi due tratti dal Web, qui e qui, il terzo da Twitter), che mostrano la differenza tra la lettura generica e letture ‘individualizzanti’:

  • Abbiamo quindi valutato che COVID-19 può essere caratterizzata come una pandemia. [nome proprio]
  • Esisterebbe un Covid tipico del Sud del nostro Paese, probabilmente meno invasivo rispetto a quello del Nord. [‘tipo di Covid’]
  • La sanificazione è da fare sicuramente se si ha avuto un covid in azienda [‘caso di Covid’]

Siamo quindi in presenza di una prima differenziazione nei significati possibili che Covid o gli altri nomi di malattia possono ricevere, tra una lettura ‘generica’, la malattia in senso assoluto, e una lettura che abbiamo definito ‘individualizzante’. Quest’ultima corrisponde a due possibilità: la lettura ‘tipo di’ e la lettura ‘caso di’ che, a differenza della prima, corrisponde ad un fenomeno circoscritto nel tempo. Un caso di varicella o di Covid hanno un inizio, una fine ed una durata che possiamo misurare (una varicella di una settimana). Tecnicamente, diciamo che si tratta di un evento che ha un ‘ancoraggio temporale’. Un tipo di diabete o di Covid, invece, sono entità astratte prive di ancoraggio temporale, esattamente come il diabete o il Covid in generale, semplicemente più specifiche di queste ultime. Per chiarire meglio la differenza possiamo usare l’esempio dei nomi massa, di cui abbiamo già detto che si avvicinano, nel loro comportamento linguistico, ai nomi di malattia. Prendiamo il nome birra: usato con un articolo determinativo (o senza articolo) designa naturalmente la sostanza ‘birra’ in senso generico (mi piace la birra, bevo birra), con un articolo indeterminativo, invece, può designare un tipo di birra (la Guinness è una birra scura) o una porzione (bottiglia, pinta, bicchiere…) di birra (esco a bermi una birra) — interpretazione, quest’ultima, che può essere accostata alla lettura che abbiamo definito individualizzante ‘un caso di Covid’. Il nome di un tipo di birra (una birra scura) resta un nome massa che designa una sostanza non scomponibile, mentre in esco a bermi una birra il nome che compare è un nome contabile, come panino o bicicletta.

Malattia, malattie e malati

Quella illustrata qui sopra è soltanto una delle manifestazioni della varietà di significati che Covid può avere. Esistono però diverse altre ramificazioni del significato che, in parte, dipendono dalla natura della malattia e dal suo modo di manifestarsi.

 Come abbiamo visto, una delle chiavi per osservare la varietà di significati manifestata da Covid consiste nel cercare i contesti in cui la parola è accompagnata da quantificatori. Di contesti di questo tipo, benché rari, se ne trovano. Qui sotto ne riportiamo e commentiamo un certo numero, che abbiamo tratto da Repubblica o da Twitter:

  • …può chiedere agli esperti che conosce se usando gli antivirali non si rischia di selezionare un covid19 più virulento e patogeno? (Twitter, 27 marzo)
  • È come se esistessero tanti Covid diversi […] a volte colpisce con più severità i polmoni, altre il fegato, il pancreas, il cuore, come se esistesse un Covid epatico, uno polmonare, uno cardiovascolare. (Repubblica, 10 giugno)

Questi primi due esempi illustrano chiaramente il significato che più sopra abbiamo etichettato come ‘tipo di’. Ovviamente, perché un tale significato sia attivato dai parlanti, non è necessario che esistano realmente diversi tipi di Covid. Le lingue servono anche (e forse soprattutto) per parlare dell’irrealtà: possibilità, ipotesi, quando non proprio mondi di fantasia (si noti che non a caso Covid(­-19) occorre qui nei contesti modali si rischia di… e è come se…, che introducono appunto delle possibilità, temute o solo immaginate). Che le due occorrenze in questione esprimano non dati di fatto, ma possibilità, non cambia nulla ai termini della questione.

  • La sanificazione è da fare sicuramente se si ha avuto un covid in azienda (Twitter, 1 maggio)
  • Potremo distinguere con più facilità un Covid da un caso di influenza stagionale (Repubblica, 28 maggio)

In questi contesti, Covid designa manifestazioni particolari della malattia su singoli individui, sono cioè esempi del significato che abbiamo definito ‘caso di’; nel secondo di questi, un Covid è addirittura messo in parallelo esplicitamente con la costruzione un caso di (influenza). Fin qui, si tratta di usi che, sulla base di quello che si osserva con gli altri nomi di malattia, sospettavamo che potessero esistere. Ma gli ultimi due contesti che riportiamo sono, forse, ancora più interessanti:

  • lo userei pure la app Immuni ma stai a vede’ che ogni volta che incontro un Covid me se scarica la batteria (Twitter, 21 aprile)
  • Entro domenica, aggiunge il direttore generale, vorrei raggruppare tutti i Covid nella nuova palazzina (Repubblica, 16 maggio)

È evidente che qui Covid è la designazione di una persona che soffre della malattia in questione. Si tratta evidentemente di un significato assai lontano da quello, astratto, di ‘malattia’ in senso generico: qui ciò che è designato è un individuo (o più individui), cioè quanto di più concreto si possa concepire. Da un lato, è possibile che l’uso in questione appartenga prioritariamente al gergo dei medici e dei lavoratori della sanità. È del tutto concepibile che, tra medici, si possa dire raggruppare tutte le polmoniti / gli infarti / le leucemie… nella nuova palazzina[1]. Se questa costruzione è possibile, tuttavia, è anche perché i medici sfruttano un meccanismo metonimico che è già presente, potenzialmente, nella lingua in generale: designare un individuo con una parola che primariamente indica una realtà alla quale tale individuo è legato da una relazione particolarmente saliente. Si vedano i due esempi qui sotto, tratti da Internet, in cui i 41-bis e un 2002 designano, rispettivamente, i detenuti in base al decreto 41-bis e un calciatore nato nel 2002:

  • la circolare vale per i detenuti comuni e non si applica ai mafiosi, ai 41-bis, ai camorristi e ai pericolosissimi ndranghetisti…
  • Eppure lui è un 2002 anche se dimostra doti da 25enne nel pieno della carriera.

Ricapitolando, abbiamo una prima serie di significati che il nome Covid può prendere nell’uso reale, che hanno tutti in comune il fatto di designare entità quantificabili, perché sono uno dei vari sottotipi di un tipo più generale (un Covid epatico), perché sono manifestazioni specifiche, circoscritte nel tempo, della malattia (avere un Covid in azienda), o perché sono individui che soffrono della malattia stessa (incontrare un Covid). Come abbiamo visto, ognuno di questi significati non è un’innovazione introdotta dai parlanti specificamente per Covid, ma sfrutta tendenze già presenti nella lingua. Possiamo anzi considerare che, nel contesto appropriato, qualsiasi nome di malattia potrebbe comparire negli stessi contesti. Per riallacciarci a quanto detto nel post precedente, sono questi i casi in cui Covid è più tipicamente usato come nome comune.

Virus e malattia

Rispetto ad altre malattie, Covid-19 ha anche alcune caratteristiche specifiche, che contribuiscono ad alimentare la rete di significati espressa dalla parola: 1) è una malattia virale,  2) è una malattia contagiosa che ha dato luogo ad una pandemia.

Cominciamo col carattere virale. Consideriamo gli esempi seguenti (uno dal post precedente, e altri presi da Repubblica):

  • Anticorpi schierati a difesa di una cellula ed attenti a fagogitare [sic] ogni covid 19.
  • La Società italiana di medicina ambientale (Sima) annuncia che il Covid 19 è stato ritrovato sul particolato (Pm).
  • è da ritenersi irrilevante il rischio di presenza del Covid-19 attivo nelle acque superficiali.

Questi esempi mettono in evidenza la sovrapposizione tra il riferimento alla malattia e il riferimento al virus che ne è causa. Anche se la confusione tra la malattia e il virus viene volentieri stigmatizzata e indicata come una manifestazione di incuria lessicale se non addirittura di ignoranza, è abbastanza facile da spiegare in termini linguistici. In primo luogo, è una manifestazione dell’indeterminatezza semantica intrinseca di tutte le parole delle lingue naturali. A livello cognitivo, il legame tra una causa e il suo effetto è così forte e stabile che non è facile distinguere tra le due cose (soprattutto quando la causa è invisibile). A livello linguistico, la sovrapposizione tra una causa e il suo effetto è un fenomeno che si osserva assai di frequente. Pensiamo a parole come taglio o bruciatura che, in quanto nomi derivati da verbi, indicano inequivocabilmente un evento, ma possono indicare anche una traccia visibile e misurabile, ad esempio sul corpo di una persona (un taglio / una bruciatura di 3 cm); o pensiamo a un contesto come questo:

  • Aleppo, la guerra sul volto di un bimbo salvato dai bombardamenti.

In questi casi quello che vediamo non sono gli eventi designati dalle parole in questione (il tagliare, il bruciare, la guerra), ma i loro effetti.

Avere una denominazione precisa che distingue un virus dalla malattia che provoca è certamente una necessità nell’ambito del discorso scientifico, ma è perfettamente tollerabile, e anche inevitabile, far passare in secondo piano tale precisione terminologica nella lingua di tutti i giorni. La ragione è che nel discorso scientifico si utilizzano dei ‘termini’, parole che designano in modo non ambiguo i concetti pertinenti. I termini posseggono sempre una definizione esplicita, e spesso sono ‘costruiti a tavolino’ dagli specialisti di un determinato ambito (lo stesso è successo per la malattia Covid-19 e il virus SARS-COV-2, di cui, ad un certo punto, l’Oms ha decretato che così si chiamavano). La terminologia scientifica esula dunque dall’ambito di quelle che qui sopra abbiamo definito “lingue naturali”, il cui lessico si evolve secondo i meccanismi intrinseci (di cui siamo perlopiù incoscienti) della lingua. A livello metalinguistico possiamo essere perfettamente consapevoli del fatto che Covid è il nome della malattia, ma nella pratica linguistica quotidiana i meccanismi inconsci che strutturano la lingua tendono inesorabilmente a prendere il sopravvento. Prendiamo un esempio: è improbabile che nella redazione di un grande quotidiano nazionale non si sappia che Covid è il nome della malattia e non del virus, e tuttavia su Repubblica, al 2 luglio, le occorrenze di malato/a/i/e di coronavirus superano quelle di malato/a/i/e di Covid (137 contro 99). Lo stesso è vero per il caso speculare di il virus Covid e il virus SARS-COV-2 (49 contro 8). Ridurre la questione al pressapochismo dei giornalisti è semplicistico: la Repubblica non è una pubblicazione scientifica, ed è perciò comprensibile che il lessico impiegato abbia le caratteristiche di quello di una lingua naturale piuttosto che di una terminologia. Una ricerca sulle politiche editoriali e l’accuratezza terminologica delle diverse testate sarebbe d’altronde estremamente interessante, ma esula ovviamente dall’argomento di questo post.

Malattia, contagio, epidemia

Interessiamoci ora al carattere pandemico. Abbiamo raccolto innumerevoli esempi (è certamente il significato più frequente dopo quello di ‘malattia’) in cui Covid indica non la malattia o i suoi effetti sulle persone, ma la pandemia e il suo contesto più generale (gli effetti, le misure prese per contenerla, etc.).  Due esempi, tra i più eloquenti che abbiamo trovato, saranno sufficienti a illustrare questo punto. Anche in questo caso, il primo è preso da Repubblica (del 14 maggio) e il secondo da Twitter:

  • Il Covid-19 minaccia anche l’area marina protetta napoletana…
  • Con il Covid-19, come cambierà il nostro modo di viaggiare e di fare turismo?

In entrambi i casi è più che evidente che Covid-19 non indica semplicemente la malattia, ma il contesto più generale di rischi per la salute, lockdown, crisi economico-sociali, etc. Questo uso di Covid e le implicazioni complesse che comporta permetterebbero di introdurre molti temi di discussione. Qui ci limiteremo ad abbozzarne qualcuno. In primo luogo, insieme al significato di ‘malattia’, quello in questione è il più compatibile con l’uso come nome proprio: così come il nome di una malattia, osservata indipendentemente dalle sue manifestazioni concrete, il nome di un’emergenza non denota una classe di referenti possibili (la classe di tutti i tipi o di tutti i casi o di tutti i pazienti di Covid concepibili), ma un referente unico, che potremmo parafrasare come ‘la crisi legata all’epidemia di Covid-19 nella prima metà del 2020 e le sue conseguenze sanitarie, sociali ed economiche’. A ben guardare, anche in uno degli esempi presentati nel post precedente il Covid nome proprio ha esattamente il significato in questione:

  • Per essere sincera anche prima di Covid-19 sognavo un decreto che imponga l’obbligo di pulire i posti sui treni.

In quanto nome (simile ad un nome proprio) di un evento storico determinato, Covid è simile ad altri nomi di periodi storici come Rinascimento, Guerra Fredda o Anni di Piombo, che non a caso si scrivono quasi sempre con l’iniziale maiuscola e sono anch’essi designatori rigidi. Se questo uso non è apparentemente possibile con altri nomi di malattie, anche epidemiche, è perché la maggior parte di essi sono troppo generici per poter designare un’epidemia precisa. E tuttavia, l’aggiunta di uno specificatore (l’influenza spagnola, la peste nera / del 1346) li rende simili a Covid in questo uso.

Tutti questi (e altri) nomi di eventi, compreso Covid – ed è l’ultima ramificazione del suo significato che menzioniamo – possono essere anche la designazione di un periodo, e occorrere quindi con avverbi di tempo come prima, dopo, durante, etc.:

  • Oggi la riunione sugli sbarchi di Costa Deliziosa, la quinta nave che attraccherà in Liguria durante il Covid-19. (Repubblica, 20 aprile)
  • Lo hanno chiuso in una stanza senza cena per tutto il covid. (Twitter, 12 giugno)

In conclusione: una rete di significati

Come emerge dalla discussione e dagli esempi che abbiamo riportato, considerare Covid un nome (proprio) di malattia è naturale, ma pensare che il suo contributo semantico sia semplicemente la malattia in ogni contesto d’uso è troppo riduttivo. I diversi usi del termine si intrecciano, invece, in quella che possiamo vedere come una costellazione di significati, che cerchiamo di illustrare con lo schema qui sotto.

Oltre ad elencare, e a collegare tra loro, i significati che abbiamo discusso ed illustrato, nello schema abbiamo cercato di delimitare (con la linea tratteggiata rossa) quelli che rinviano a entità o eventi particolari che hanno un ancoraggio temporale, nel senso che abbiamo spiegato sopra. Sia un caso singolo di Covid che l’emergenza legata alla pandemia lo hanno, poiché possono essere situati nel tempo e hanno una durata che può essere misurata (Abbiamo avuto un covid in questo ospedale la settimana scorsa o Covid-19 è dilagato nel mondo per diversi mesi). È il motivo per cui la ramificazione semantica ‘periodo’ è possibile. Notiamo, en passant, che lo stesso effetto semantico può essere ottenuto anche per un singolo caso registrato su un individuo (che abbiamo indicato nello schema come ‘periodo di un caso di Covid’), come nell’esempio qui sotto (sempre tratto da Twitter):

  • far rifiatare Dybala che si è fato [sic] 40 giorni di Covid non sarebbe male…

Abbiamo inoltre delimitato (con la linea tratteggiata verde) i significati che corrispondono a Covid come designatore rigido, che rimanda ad un’entità o ad un evento unici. Per concludere, abbiamo menzionato più volte il fatto che la rete semantica qui sopra non è una particolarità, un’idiosincrasia, di Covid, ma è strettamente legata alla sua natura di nome di malattia, e al tipo di malattia (virale, contagiosa ed epidemica) che designa. Ciò significherebbe che lo schema che abbiamo disegnato vale, tutto o in parte, per qualsiasi nome di malattia, perlomeno di malattie contagiose e con una valenza sociale comparabile a quella dell’attuale pandemia. Pensiamo, infatti, che sia così. Le citazioni che seguono sono tratte dai Promessi Sposi, e possiamo divertirci a catalogare ogni occorrenza della parola peste secondo le stesse etichette che abbiamo individuato per Covid qui sopra:

  • Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia (‘malattia’)
  • C’era soltanto alcuni a cui non riuscissero nuovi: que’ pochi che potessero ricordarsi della peste che, cinquantatré anni avanti, aveva desolata pure una buona parte d’Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la peste di san Carlo. (‘epidemia’)
  • dopo la peste, si trovò la popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime (‘periodo’)

Più in generale, schemi come quello che abbiamo abbozzato qui sopra potrebbero essere disegnati per molti altri tipi di parole, e forse per tutti. È possibile che la competenza lessicale e semantica dei parlanti assomigli più a reti di questo tipo che agli elenchi forniti nei dizionari. Se è vero che la rete in questione era già presente nella competenza linguistica dei parlanti prima del Covid (nel senso dell’epidemia) – e lo era almeno dai tempi di Manzoni –, i diversi significati che abbiamo individuato non devono essere considerati come estensioni accidentali di significato, cambiamenti che i parlanti avrebbero prodotto a partire dal significato ‘malattia’ per ragioni indipendenti dalla struttura del lessico. Al contrario, pensiamo che lo scenario sia il seguente: ad un certo punto la parola Covid è stata introdotta in italiano da un’autorità esterna (l’Oms) che intendeva proporre una denominazione per una malattia. Nel momento stesso in cui è stata introdotta, la parola è stata, per così dire, ‘fatta propria’ dai parlanti e inglobata nel lessico della nostra lingua, alle cui strutture preesistenti ha dovuto adeguarsi. A dimostrazione del fatto che tutta la rete semantica di Covid non sia emersa col tempo in virtù di cambiamenti semantici successivi, ma fosse una componente intrinseca di Covid fin dalla nascita, possiamo osservare che esempi di usi come quelli discussi qui sopra sono reperibili fin da fine febbraio, cioè dai primissimi giorni dell’emergenza Covid.

[1] Ringraziamo Ilaria Montermini per avercelo confermato. Secondo lei, però, con Covid questa tendenza sarebbe decisamente più marcata. Che questo abbia a che fare con il carattere, ugualmente particolarmente marcato, di Covid come nome proprio?

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