Smartare o non smartare? (con update)

Nelle scorse settimane ha avuto luogo un (mini) dibattito linguistico intorno ad una delle innumerevoli innovazioni lessicali che, a torto a ragione, sono nate nel contesto della pandemia, e cioè smartabile. L’aggettivo in questione ha avuto una certa risonanza mediatica intorno a metà giugno, a seguito di una serie di interventi della ministra della Funzione Pubblica Fabiana Dadone. La prima attestazione che ho trovato in questo contesto è quella presente in un post Facebook della ministra stessa del 16 giugno. Interrogata esplicitamente dal Corriere sulla sua scelta lessicale il giorno successivo, la ministra ha derubricato la cosa ad una pura questione lessicale, di forma, chiamando in causa l’Accademia della Crusca. L’istituzione, interpellata, questa volta da Repubblica, è intervenuta in effetti qualche giorno dopo. Gli argomenti della Crusca, in sostanza, sono questi: smartabile è una scelta lessicale infelice, perché a) è costruita su un anglismo (smart working), quando un corrispettivo puramente italiano (lavoro agile) esiste ed è già in uso nei documenti della Pubblica Amministrazione; b) è imprecisa perché della locuzione originale utilizza soltanto la parte che non si riferisce al lavoro; c) è mal formata in italiano, perché gli aggettivi in -bile, in italiano, si costruiscono a partire da verbi, e l’ipotetico verbo corrispondente smartare “non esiste” in italiano. In margine a questa argomentazione, l’Accademia riconosce tuttavia che le alternative possibili (ad esempio “lavorabile agilmente”) non sono necessariamente migliori e afferma di essere al lavoro per “trovarne una”. Non sono riuscito a trovare informazioni se, nel frattempo, la ricerca abbia dato i suoi frutti. Se dovessi dare un consiglio non richiesto agli accademici, tuttavia, suggerirei loro di non spremersi troppo le meningi: a quasi un mese di distanza, possiamo dire che l’aggettivo smartabile non abbia avuto grande diffusione al di fuori del gergo ministeriale, e la sua ‘fortuna’ sia legata soprattutto all’effimero dibattito metalinguistico di cui ha fatto oggetto.

Non voglio discutere questioni, che pure sono importanti, di ‘ecologia’ linguistica, e legate alle buone pratiche che dovrebbe avere l’amministrazione pubblica. Lo ha già fatto, con argomenti solidi e convincenti, il blog Terminologia etc. Condivido però lo sconcerto dell’autrice sul fatto che, nel 2020, una ministra consideri il proprio modo di esprimersi una questione secondaria, un dibattito sofistico per persone che, evidentemente, hanno tempo da perdere, a differenza di lei che è “una persona pratica”. Quello che vorrei fare, invece, è discutere le proprietà, per non dire i difetti, di smartabile individuate dalla Crusca, e più in generale il suo, almeno per ora, insuccesso.

La diffusione di smartabile

Cominciamo da questo ultimo punto. Ad oggi, su Google smartabile/i ha circa 108 occorrenze. Al di là dell’inaffidabilità di un motore di ricerca per realizzare misure lessicali, percorrendo queste occorrenze si osserva che la quasi totalità di esse corrispondono a menzioni giornalistiche (spesso virgolettate) della conferenza stampa della ministra Dadone, o a discussioni ‘metalinguistiche’ intorno all’opportunità, all’efficacia o al valore estetico del neologismo. Una stima un po’ più precisa dell’uso reale da parte dei parlanti è quella che si può fare guardando le occorrenze su Twitter. Ne ho recensite 50 in totale, e praticamente tutte hanno lo scopo di discutere, criticare o ridicolizzare il neologismo. In altre parole, gli unici parlanti che usano smartabile, e i principali responsabili della sua diffusione, (a parte la ministra e qualche funzionario ministeriale) sono quelli che parlano della parola stessa, indignandosi di un degrado della lingua, in questo caso più supposto che reale. È interessante notare anche che Twitter ci permette di retrodatare l’uso di smartabile al 23 marzo (già in epoca Covid): a quanto pare, prima ancora dei funzionari del ministero, l’utente Twitter MementoArturo AN aveva coniato il neologismo, in un contesto che mi sembra tra il militante e lo scherzoso.

La fortuna, per così dire, unicamente ‘metalinguistica’ di smartabile (a cui questo post inevitabilmente contribuisce) ricorda, più in piccolo, quella di un neologismo ben più celebre, petaloso, parola che è stata usata assai più spesso in riferimento alla parola stessa che per reale necessità di parlare dell’abbondanza di petali di un fiore. L’unica differenza, forse, è il giudizio dato dai parlanti alle due parole: globalmente positivo, o perlomeno benevolo, per petaloso, negativo per smartabile. C’è da credere, tuttavia, che, al di là delle proprietà intrinseche delle due parole (ad esempio il fatto che la seconda sia un forestierismo), sul giudizio del ‘tribunale popolare’ incidano anche le condizioni in cui ognuna delle due parole è stata creata e introdotta: si è più disposti a guardare con simpatia la creazione di un bambino delle elementari che parla di fiori, piuttosto che un anglismo burocratico-ministeriale che parla di una realtà (il lavoro in remoto a seguito del lockdown) tendenzialmente ansiogena.

Se poi ci chiediamo il perché del globale insuccesso di smartabile, è probabile che la ragione sia piuttosto utilitaristica che estetica. Dopotutto, le parole brutte, inopportune, oscure, mal formate pullulano nella lingua (nel linguaggio burocratico, ma certamente non solo). Evidentemente, però, al di fuori del gergo ministeriale, non è così indispensabile parlare dell’adattabilità di un lavoro alla modalità remota.

Smartabile: una parola così mal formata?

Queste osservazioni da sole basterebbero, forse, per non dilungarsi ulteriormente su smartabile. Vorrei ancora, tuttavia, riprendere i criteri menzionati dall’Accademia della Crusca, che, si è forse capito, non considero comunque dirimenti per decidere la sorte del neologismo. In particolare, vorrei soffermarmi sui punti che ho indicato qui sopra come b) e c), gli unici che sono puramente linguistici. Il fatto che si tratti di un anglismo, infatti, ha piuttosto a che vedere con considerazioni di tipo estetico o ideologico. Da cittadino condivido calvinianamente l’idea che l’amministrazione pubblica dovrebbe esprimersi di preferenza in italiano, e soprattutto in maniera chiara e ‘democratica’. Da linguista, l’‘inglesorum’ non mi scandalizza più del ‘latinorum’ o di altri usi criptici, ostentatori o sciatti della lingua. Le altre due caratteristiche evidenziate dalla Crusca, invece, hanno direttamente a che vedere con la natura stessa della parola, e le osservazioni che permettono di fare sono strettamente legate tra di loro. Comincio dalla seconda, il fatto che smartabile sarebbe “mal formato” perché gli aggettivi in -bile derivano da verbi, e non esiste, in italiano, un verbo smartare. È più o meno il contrario di quello che dico ai miei studenti di morfologia da diversi anni a questa parte (a dire il vero, a loro lo dico sul francese, che però in questo caso si comporta in modo molto simile all’italiano). Prima di tutto, il concetto di ‘esistenza’ per una parola è difficile da oggettivare. Se per ‘esistere’ intendiamo far parte del lessico globalmente condiviso dai parlanti dell’italiano (grosso modo essere una delle parole accolte in un dizionario), allora è evidente che smartare non ‘esiste’. Ma una parola, come una frase, come qualsiasi altra costruzione linguistica, ‘esiste’ soprattutto in quanto è usata da uno o più parlanti in una situazione reale; altrimenti, è solo un fossile dizionaristico. In questo caso, seppur raramente, occorrenze di smartare si trovano. Guardiamo ad esempio questa, tratta sempre da Twitter. Qui l’argomento, fissato dal tweet principale, è quello dello smart working, e il verbo smartare, usato in un commento dall’utente LaMary® significa chiaramente ‘lavorare in smart’. Aggiungo che su Google si trovano anche diverse occorrenze di smartizzabile (e anche di smartizzare): l’aggiunta della sequenza -izz- ha indubbiamente lo scopo di rendere ancora più evidente il legame tra l’aggettivo e un verbo, indipendentemente dall’‘esistenza’ (nel senso dizionaristico del termine) di quest’ultimo. Anche se il verbo non esistesse (o se consideriamo che è troppo raro per poterne decretare l’esistenza in maniera ‘ufficiale’), tuttavia, non è vero che -bile si lega solo ed esclusivamente a verbi. I derivati non deverbali (come dicono i morfologi) più diffusi sono probabilmente tascabile e ciclabile: secondo i criteri della Crusca, è probabile che ‘non esistano’ in italiano i verbi tascare e ciclare. Che non si tratti di eccezioni o curiosità linguistiche, è dimostrato dal fatto che ne esistano numerosi altri, più o meno frequenti: si può dire di un politico che è ministrabile o addirittura quirinabile, i giornalisti parlano di avvenimenti più o meno notiziabili, etc. Il motivo è che il suffisso -bile seleziona la parola a cui legarsi principalmente sulla base del significato, piuttosto che della categoria grammaticale. In particolare, il suffisso indica la possibilità di realizzare una determinata azione su un oggetto. È evidente che le parole che in una lingua designano azioni sono, nella stragrande maggioranza, verbi. È da qui che deriva l’‘illusione ottica’ che -bile sia deverbale. Ma esistono casi in cui, nell’espressione di un’azione, la parola più informativa sia diversa da un verbo. In mettere in tasca il ‘focus’ è sul luogo che costituisce la destinazione dell’oggetto designato come tascabile (la tasca) piuttosto che sul verbo (che semanticamente è assai generico). Allo stesso modo in fare smart working (o lavorare in smart), le parole più informative non sono quelle che si riferiscono al lavoro, ma quella che si riferisce alla specifica modalità con cui il lavoro è effettuato, per l’appunto smart. Proprio queste osservazioni servono da risposta, mi sembra, anche al punto b) sollevato qui sopra: il fatto che smartabile sia costruito sull’aggettivo smart(il cui significato, tra l’altro, si discosta da quello che ha nell’originale inglese) piuttosto che sul verbo lavorare (o il corrispettivo inglese) è del tutto coerente con la necessità di avere, come base, la parola più informativa in un’espressione complessa.

[Update: Sul blog Lo Sciacqualingua Salvatore Claudio Sgroi interviene sull’aggettivo smartabile con conclusioni che mi sembrano convergenti con quello che dicevo qui riguardo alla ‘correttezza’ morfologica della parola in questione. Il punto centrale sviluppato in questo post, tuttavia, riguardava le chances di successo che l’aggettivo ha in italiano. Per usare una metafora al passo coi tempi, l’idea è che i principali ‘diffusori’ di smartabile sono i portatori ‘asintomatici’ che si sentono immuni dal bisogno di usare questa parola, ma contribuiscono, loro malgrado, alla sua circolazione, menzionandola, in funzione metalinguistica per discuterla, criticarla, etc. La tendenza osservata a luglio non ha fatto che confermarsi. Due mesi sono ovviamente un lasso di tempo risibile per osservare i cambiamenti in atto nella lingua, e fare linguistica ‘in tempo reale’ è sempre rischioso. Una rapida ricerca su Twitter, tuttavia, conferma che, dal 16 luglio (data di questo post) ad oggi, smartabile si usa soprattutto per indignarsi dell’esistenza della parola stessa. Delle 11 nuove occorrenze di smartabile / smartabili soltanto quattro sono usate dagli utenti per designare il concetto corrispondente; in tutti i casi si trovano tra virgolette, e in uno l’utente sente addirittura il bisogno di aggiungere “scusate il termine”. In tutti gli altri casi, smartabile è usato in senso metalinguistico (e definito orribile, o corredato da commenti come “non si può sentire”, “ma dove stiamo finendo”, “?”). Solo in un caso la menzione metalinguistica sembra rimandare indirettamente ad un uso ‘reale’ dell’aggettivo. Sarà interessante osservare la tendenza in futuro, ma allo stato attuale smartabile non sembra in grado di sfondare nel lessico italiano, nemmeno in quello burocratico.]

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.